Prima i russi e poi i cinesi. Usati entrambi come taxi e scaricati quando da opportunità si sono rivelati un problema. Sorprende la nonchalance con cui, almeno in Italia, viene giudicato l’operato di Marco Tronchetti Provera nella gestione di Pirelli e della governance della società in cui prima i russi di Rosneft e ora i cinesi hanno quote di assoluto rilievo.
Cinesi in Pirelli
Oggi la presenza della società del Dragone, Sinochem, che di Pirelli ha il 37 per cento del capitale, viene considerata pericolosa, quando fu lo stesso Tronchetti a farli entrare nel capitale della società degli pneumatici nel lontano 2015 e con una quota maggioritaria.
La guerra commerciale scatenata da Donald Trump, che vede come primo nemico la Cina, rischia di mettere in difficoltà gli affari di Pirelli sul mercato nordamericano, che vale il 40 per cento dei ricavi del gruppo. Così come la presenza di Pirelli nel continente asiatico con tre impianti e 5mila dipendenti rischia di pagare caro i dazi imposti dal presidente Usa.
Già nell’estate del 2023, tra l’altro, si era accesa la tensione con il governo che aveva invocato il golden power sulla forte presenza cinese e che aveva ridettato regole sulla governance, con i cinesi messi sempre più nell’angolo riguardo alla gestione, che doveva rimanere saldamente in mano a Camfin e ai suoi manager, che di Pirelli all’epoca possedevano solo il 14 per cento del capitale.
Sensori sensibili nel mirino
Nel mirino ora sono entrati i cosiddetti Cyber Tyre, i sensori sulle gomme che permettono di scaricare ed elaborare dati ritenuti sensibili e che agli americani piacciono poco, tanto da averne chiesto il bando negli Usa. Un problema in più per Pirelli. E che spinge Tronchetti a voler ridimensionare il peso del silente socio asiatico, tanto da indurlo a scendere nel capitale. Curioso paradosso, dato che, al di là delle motivazioni della presunta ingerenza cinese, la morale della storia è che gli uomini di Pechino mettono sì i soldi, ma devono stare alla finestra senza toccare mai palla nelle decisioni sull’azienda. E così pare normale che si giustifichi che il socio di maggioranza abbia meno diritti del socio di minoranza.
Si vedrà come si ricomporrà o meno il dissidio con Pechino, irritata dopo la mossa del golden power italiano, che ulteriormente mette nell’angolo i rappresentanti di Sinochem. Una frattura che dovrà trovare una composizione nel cda indetto il prossimo 28 aprile, dopo che la riunione di fine marzo del consiglio di Pirelli si era chiusa con un nulla di fatto.
Sta di fatto che la querelle scoppiata ora arriva dopo lunghi anni di convivenza in cui Tronchetti, pur avendo una quota nel capitale della Bicocca marginale rispetto ai cinesi, ha retto del tutto indisturbato e in solitaria il timone.
Le azioni di Tronchetti
Del resto, lui sembra essere rimasto uno degli ultimi capitani d’impresa a impersonificare l’antico motto di Enrico Cuccia: “Le azioni si pesano e non si contano”. Ultimo degli epigoni cucciani, ha sempre governato le sue imprese con il minor dispendio di capitale possibile, massimizzando nel contempo il suo potere.
Basti vedere l’assetto di Pirelli. Fino al 2023 la sua Camfin possedeva solo il 14,4 per cento del capitale di Pirelli. Ma la stessa Camfin è posseduta dalla holding di famiglia, la MTp, con solo il 29,8 per cento del capitale. Morale: la quota in trasparenza della famiglia Tronchetti in Pirelli è stata per anni solo di poco più del 4 per cento. E le restrizioni del recente golden power di 2 anni fa confermano che gli organi di gestione di Pirelli sono espressione della sola Camfin.
Meraviglie delle scatole cinesi (ironia della sorte) che mister Pirelli ha sempre messo in piedi nel controllo delle sue società. Basti ricordare la lunga catena societaria che dalla holding personale della famiglia Provera arrivava fino a Telecom, uno degli investimenti rivelatisi del tutto fallimentari.
Scatole cinesi
Nella stessa Camfin figurano tra i soci, dopo Mtp, Intesa e Unicredit, la famiglia Rovati e la Long March, non a caso la Lunga Marcia, società di proprietà della famiglia cinese dei Niu, vecchia conoscenza di Tronchetti fin dal suo primo sbarco in Cina. In Long March spunta anche Tronchetti con il 51 per cento.
Ebbene, grazie al meccanismo dei diritti di voto il 29,8 per cento del capitale di Camfin in mano alla Mtp di Tronchetti Provera assicura il 55 per cento dei diritti di voto, con Long March che pur avendo il 32 per cento del capitale esercita solo il 20 per cento dei diritti di voto.
Come si vede, tra il giochino delle matrioske – di cui è esperto il nostro capitano d’impresa – e il meccanismo antidiluviano della maggiorazione dei diritti di voto, Tronchetti Provera comanda pur non avendo la maggioranza delle azioni.
Nel 2024, dopo l’intervento a gamba tesa del governo con il golden power, e sempre più preoccupato dalla presenza di Sinochem, Tronchetti ha finalmente messo mano al portafoglio e ha cominciato a rastrellare quote di Pirelli.
All’assemblea della fine dello scorso anno si è presentato con il suo storico pacchetto del 14,4 per cento di Camfin, cui ha aggiunto un 7,8 per cento di Camfin alternative asset, in cui condivide il controllo sempre con l’amico Niu di Long March, e un 3,8 per cento acquistato in quell’anno, guarda caso, sempre dall’onnipresente Long March. In fondo, i soldi ci sono sempre stati. Nel bilancio di Mtp del 2023 c’erano 66 milioni di cassa; oltre 33 milioni investiti in fondi e polizze e un valore delle partecipazioni finanziarie (leggi Camfin-Pirelli) per 800 milioni che fronteggiano debiti per oltre 200 milioni. E così la quota in Pirelli è salita al 26 per cento. Sempre largamente minoritaria sul solido 37 per cento di Sinochem, ha portato la quota indiretta di Tronchetti in Pirelli a salire sì, ma rimanendo a poco più dell’8 per cento.
La lunga marcia
Ora il delfino, designato all’epoca da Leopoldo Pirelli a guidare l’impero delle gomme, avverte con l’inasprirsi della contesa Usa-Cina il rischio della convivenza con il silente socio del Dragone. Ma non si è fatto molti scrupoli quando nel lontano 2015 fu lui a spalancare le porte a ChemCina, poi divenuta SinoChem.
E lo fece per le difficoltà finanziarie della holding sopra Pirelli, la Camfin di allora, oberata da debiti finanziari vicini ai 400 milioni. La stessa Pirelli si ritrovava nel 2014 con debiti finanziari per 2,3 miliardi e 4,4 miliardi di debiti totali.
Occorrevano soldi freschi, ed ecco spuntare il socio cinese. Si crea una scatola, la Marco Polo holding, con i cinesi al 65 per cento e con cui viene acquisito la quota di Pirelli da Camfin per 1,5 miliardi e si va al delisting del titolo.
Nel 2017 il gruppo torna in Borsa collocando il 37 per cento del capitale per un incasso di 2,4 miliardi e con la scatola Marco Polo che conserva il 63 per cento delle azioni. Dentro Marco Polo ancora una volta i soci forti sono i cinesi con il 65 per cento delle quote; mentre la Camfin ha solo il 22,4 per cento del capitale. Senza dimenticare che la stessa Camfin vede la famiglia Tronchetti non superare il 30 per cento delle quote. Di nuovo l’alchimia finanziaria delle matrioske. Scatola su scatola con quote non di maggioranza, ma che consentono a cascata il governo pieno della società pur mettendo meno soldi possibili.
Il gioco del chiamare a raccolta capitali, non importa di quale colore siano, è una specialità di casa. Prima della Cina, fu la volta della Russia, con la compagnia statale Rosneft che entrò in Pirelli con una quota del 13 per cento, messa a disposizione dalle due banche finanziatrici e socie di Camfin, Intesa e UniCredit. La liaison durò poco, tanto che nel 2015 ecco comparire sulla scena i cinesi che hanno permesso l’espansione produttiva nel continente asiatico di Pirelli.
Come si vede, una storia ben poco lineare, una complessa ragnatela di intrecci di acquisti e vendite, di scatole finanziarie che si riempiono e si svuotano. Con un unico vero obiettivo: assicurare le risorse necessarie alla crescita di quello che è uno dei grandi produttori globali di pneumatici, ma mettendo meno capitale di rischio possibile. I soldi si chiedono ad altri, salvo tenerli fuori dalla cabina di regia.
Magie dell’ingegneria finanziaria, più che della gestione industriale, e con un vero grande maestro. Il Cuccia delle “azioni si pesano e non si contano”. E quando i compagni di viaggio si fanno scomodi si invoca il pericolo e le si prova tutte per scaricarli.
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