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Mafia e politica, nuove trame e nuovi sistemi clientelari


Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.

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L’esempio del politico Francesco Campanella fornisce una peculiare chiave di lettura del modo di atteggiarsi del rapporto tra esponente politico e gruppo mafioso, così come il caso dell’Assessore regionale al Territorio e Ambiente analizzato dalla corte di cassazione. In quelle vicende, Cosa

Nostra esprime una supremazia evidente sul politico, che si presenta come assoggettato alle sue richieste, ben sapendo che in caso di elusione del patto, il prezzo da pagare sarebbe altissimo, anche in termini di possibili rischi per l’incolumità sua o dei suoi prossimi congiunti.

Per altro verso, quello che in un precedente capitolo è stato definito come il cosiddetto “patto del tavolino”, ossia la occulta spartizione degli appalti avvenuta a cavallo tra gli anni ottanta e novanta in Sicilia, rende manifesto un rapporto di cooperazione tra politici e mafiosi che si consuma su una piattaforma collaborativa in cui le diverse entità non si muovono su un piano di parità. Sono i “dittatori corleonesi” i contraenti forti, tant’è che impongono uomini da loro delegati per la gestione diretta e centralizzata del sistema, prima Angelo Siino e poi Pino Lipari.

A partire della seconda metà degli anni novanta, tuttavia, la strategia della sommersione dettata da Bernardo Provenzano porta Cosa Nostra a rinunciare ad ogni velleità di gestione diretta e centralizzata del sistema degli appalti nella fase della loro aggiudicazione. Si preferisce lasciare questo compito alle imprese di riferimento e ai “comitati d’affari” per influire in maniera discreta ed invisibile sulla loro aggiudicazione.

In altri termini, le cosche e i loro referenti politici e imprenditoriali non hanno smesso di cercarsi, intessere relazioni, organizzare cartelli e scambiare tangenti, ma hanno strutturato in modo differente i loro rapporti. Non c’è alcuna pretesa di governo di gestione verticistica. Si segue piuttosto un modello di regolazione più localistico e reticolare, ma non per questo meno efficace e meno pervasivo.

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È una tendenza determinata dalle falle aperte nel sistema dalla defezione e dal pentimento di alcuni soggetti di primo piano. Come segnalano alcuni osservatori: “l’accentramento in un soggetto delegato dalla mafia, dei compiti di identificazione, informazione e garanzia di adempimento dell’intesa collusiva da un lato riduce i problemi di coordinamento, ma dall’altro espone le imprese e gli stessi mafiosi al pericolo di un catastrofico collasso del sistema”.

Non vi è dubbio che figure del tipo di quella di Siino, Lipari o Salamone rappresentano uno snodo critico del sistema di turnazione. Il coordinatore accumula un patrimonio di informazioni compromettenti per l’attività di molti soggetti, pubblici e privati, coinvolti nel comitato occulto fondato sulla corruzione. In caso di coinvolgimento nelle indagini il coordinatore ha un incentivo a far fruttare questo capitale di conoscenze, “vendendole” all’autorità giudiziaria in cambio di un trattamento favorevole.

Il che si è puntualmente verificato nel caso di Angelo Siino, che dopo la sua cattura ha iniziato a collaborare nel 1997, e dei suoi successori, arrestati grazie alla sua collaborazione. Forse, anche per evitare questo genere di “inconvenienti”, è mutato l’atteggiamento dei politici nei confronti dell’organizzazione mafiosa. Recenti inchieste giudiziarie sembrano accreditare una vocazione clientelare del “far politica” che incrocia gli interessi mafiosi allo stesso titolo di altri interessi.

Lo rivela una indagine denominata “Alta mafia”, sfociata nella condanna in primo grado di un ex assessore regionale ai Lavori pubblici, al vertice di un comitato d’affari politico-imprenditoriale-mafioso operante nella provincia di Agrigento. Come evidenziato da alcuni analisti all’indomani della sentenza del Tribunale di Agrigento, al di là delle responsabilità individuali, quel caso mette in luce una forma peculiare di intreccio tra agire politico e agire mafioso.

Dalla “voce” dei protagonisti intercettati, nella specie politici, imprenditori, liberi professionisti, si coglie l’esistenza di una trama clientelare articolata e complessa che persegue un progetto di illegalità su vasta scala nella quale la presenza della componente mafiosa non pare rivestire un ruolo trainante.

È il politico ad assumere la regia del comitato d’affari che condiziona la concessione dei finanziamenti dei fondi ex Gescal e dello Iacp destinati al recupero e alla riqualificazione urbana dei vari comuni della provincia di Agrigento. La manovra mira a favorire “imprese amiche”, a loro volta disponibili a collaborare nelle imminente campagna elettorale del politico, anche versando tangenti.

Il risultato dipende dalla convergenza dei contributi di un gruppo di liberi professionisti e di esponenti della burocrazia locale. I primi preparano progetti di finanziamento da sottoporre agli enti locali. La loro azione si salda con la compiacenza e gli interessi di alcuni esponenti della burocrazia regionale (quali un funzionario del Gabinetto dell’Assessorato con il compito di istruire le pratiche) o della burocrazia locale (organi di vertice dello I.A.C.P. di Agrigento).

La presenza degli “uomini d’onore” nel comitato d’affari serve fondamentalmente a garantire il rispetto dei patti corruttivi e spartitori. Non a caso il politico li definisce “gli amici nostri col bastone”. E, in questo modo, sembra attribuire loro compiti ben precisi: dissuadere da qualsiasi velleità d’inosservanza dei patti, piegare a una spontanea adesione alle regole del cartello, trasmettere segnali che permettono una rapida correzione di malintesi ed errori. In cambio della forza intimidatoria, ai mafiosi si riconosce l’attribuzione di qualche affare redditizio.

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Diversamente da quanto registrato ai tempi del patto del “tavolino”, è il politico che organizza, centralizza e mantiene in condizioni di buon funzionamento “gli sparsi frammenti di potere locale” rappresentati da burocrati, amministratori comunali, imprenditori e mafiosi. Quella delicata regia è indispensabile per monopolizzare e controllare il flusso della spesa pubblica. Si fonda su reti clientelari difficilmente fungibili perché costruite negli anni e, in modo, assolutamente indipendente dalle variabili maggioranze politiche, contando sui medesimi attori imprenditoriali e su burocrati-amministratori immuni allo spoil sistem.

Come ai tempi del “patto del tavolino”, finanziamenti, bandi di gara, aggiudicazioni continuano a compiersi nel pieno disprezzo dei principi del buon andamento e dell’imparzialità della P.A e della libera concorrenza tra imprese. Si va dall’abuso di ufficio alla corruzione, dal falso ideologico alla illecita concorrenza con minaccia o violenza. E queste condotte si annidano in un contesto politico, sociale ed economico siciliano che si caratterizza per la complessità e l’alto tasso di discrezionalità nella regolazione, l’inefficienza della amministrazione pubblica, nonché per gli alti livelli di illegalità diffusa nella società civile, che vanno dall’economia sommersa all’evasione fiscale.

Il sistema clientelare descritto si avvantaggia anche della pressoché totale mancanza di forme di controllo extra penali. Nelle vicende illustrate in questo capitolo, svelate anche da ore e ore di conversazioni intercettate, non solo i mafiosi ma anche i politici, i liberi professionisti o gli imprenditori dimostrano di non temere mai verifiche di natura amministrativa, contabile, professionale o di categoria.

Men che meno forme di controllo politico, potenzialmente esercitabili nell’ambito delle competenze della giunta regionale o dell’assemblea regionale, o, ancora, nell’ambito dei partiti da cui provengono i politici compromessi o collusi.

Ciò accade, nonostante la chiara influenza negativa delle azioni illecite descritte sullo sviluppo economico-sociale della regione, sui bilanci pubblici e sulla tenuta degli istituti dello Stato democratico di diritto.

Naturalmente, Cosa Nostra rimane un tassello importante di quel sistema di illegalità diffusa. Con le azioni dei suoi uomini rafforza l’incisività di quei comitati d’affari, potendo mettere a disposizione non solo la sua capacità intimidatoria ma anche il suo capitale sociale, ossia la rete di conoscenze e di contatti a livello amministrativo e imprenditoriale.

Insomma l’alleanza tra politici corrotti e l’organizzazione criminale costituisce una “miscela esplosiva” per gli interessi di una collettività siciliana condannata a subire il “saccheggio” delle risorse disponibili a discapito dei numerosi settori di sofferenza della regione a livello di strutture e di piani di sviluppo economico.

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