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La ventiquattr’ore di Giorgia Meloni


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Scrivere il finale di una partita mentre si sta ancora svolgendo l’incontro è praticamente impossibile. Nel nostro caso, l’impresa è ancora più complicata perché i protagonisti dell’evento sono imprevedibili essi stessi. O meglio: il primo è imprevedibile, Donald Trump. La seconda, Giorgia Meloni, è ambigua e “diplomatica”: oggi è a Washington per rinnovare l’amicizia con l’alleato e ribadire la totale fedeltà atlantica, ma nello stesso tempo le spetta la parte della “sindacalista dell’Europa” messa in pericolo dai dazi. Da Bruxelles le hanno dato l’ok al viaggio, ma hanno detto che vigileranno strettamente. Sapendo tra l’altro perfettamente, la presidente del Consiglio, che cosa pensano di noi gli uomini che bazzicano la Casa Bianca, a partire da Elon Musk, ma soprattutto da J. D. Vance, il vicepresidente degli Stati Uniti, che continua a darci dei parassiti, mangiaspaghetti a tradimento.

La domanda quindi sorge spontanea: se tutti sanno che si tratta di un’impresa impossibile, perché mettere in scena questo teatrino che suona falso peggio di un musical di second’ordine? Quale bottino si aspettano i protagonisti? Trump e Meloni sono imprevedibili, ma fino a un certo punto, e lo squilibrio dei poteri è tale che non si possono neppure fare paragoni o mettere sullo stesso piano. Hanno però un tratto in comune: il senso degli affari e delle convenienze immediate. Per Giorgia Meloni è già un grande risultato essere sotto i riflettori mondiali a un livello così alto. Giorgio Almirante non avrebbe mai potuto prevedere un “successo” del genere per un’erede del Movimento sociale italiano, nato sulle ceneri della Repubblica di Salò. Un bottino mediatico che val bene un inchino al doge.

Da parte sua, Trump non ha problemi di visibilità. Da quando è stato eletto, e soprattutto da quando ha scatenato la guerra dei dazi (solo apparentemente folle e dissennata: vedi qui), è presente in tutti i notiziari del mondo. Ogni giorno. Fa e disfa come vuole le carte, perché ha ben chiari due obiettivi. Procurare affari per la finanza americana e rilanciare la corsa alla frontiera interna, portando le imprese straniere a investire nel West, contro il nemico principale che non è più l’Iran, l’antico male assoluto, ma la Cina, che ha già vinto il campionato mondiale dell’automotive e della transizione all’elettrico.

Sia Trump sia Meloni hanno presente un dato incontrovertibile: il legame strettissimo tra l’economia a stelle e strisce e l’economia italiana. Anche qui non è questione di ideologie o di filosofia (“io non faccio filosofia”, ribadisce spesso Meloni). È questione di interessi. Per quanto riguarda l’interscambio commerciale, l’Italia è il quattordicesimo mercato di destinazione delle esportazioni americane e il dodicesimo fornitore degli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti sono soprattutto il secondo mercato di destinazione delle esportazioni italiane, in particolare per quanto riguarda i macchinari e i prodotti chimici e farmaceutici.

Secondo i dati ufficiali, dal 2013 al 2022 le esportazioni italiane di beni e servizi sono quasi raddoppiate, con un aumento del 66,6%, passando da 48,3 miliardi di dollari, nel 2013, a 80,5 nel 2022. E oltre a difendere questo intreccio di ferro, l’America che vuole ridiventare grande – illudendosi di ricominciare a svolgere anche il ruolo di locomotiva mondiale dell’industria manifatturiera (pura illusione secondo la maggior parte degli osservatori) – ha interesse a puntare il dito dell’omino col cilindro a stelle e strisce verso le industrie europee: venite a produrre da noi, così evitate i dazi. E a un richiamo del fare profitti proveniente da tali sirene il capitale, che non ha nazione, è sempre molto sensibile. Così, in piena guerra commerciale (prima ancora della sospensione temporanea dei dazi), sono circolate notizie di imprenditori nostrani già pronti con la valigia.

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La possibile nuova emigrazione verso l’“Amerika” trapela anche da alcune esternazioni di Confindustria, secondo cui ci sarebbe “il rischio della fuga di aziende e capitali negli Usa”. Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo di Pirelli, lo ha subito ammesso: “Stiamo valutando investimenti negli States”. Su “La Stampa” di Torino il gruppo Sila – uno dei più importanti player nella progettazione e produzione di sistemi di cambio marcia, cavi flessibili per le principali case automobilistiche, tra cui Stellantis – ha ammesso la volontà di fuga: “Stiamo facendo scouting – dice il presidente, Edoardo Pavesio – per cercare un’azienda da acquisire. Costruire da zero un impianto, invece, non ha senso per noi. Possiamo pensare a uno spin-off, ed effettivamente è un discorso che stiamo seguendo. Abbiamo attivato le nostre antenne in Nord America”.

E quello che meraviglia (ma forse neppure troppo) è il nuovo innamoramento americano da parte di un tessuto di medie e piccole imprese che caratterizza quel famoso made in Italy che veniva studiato anche all’estero. Francesca Paoli, dell’impresa emiliana Dino Paoli, dopo avere ribadito più volte che i dazi sono il modo sbagliato per riequilibrare la bilancia commerciale, ha dichiarato: “Esportiamo per l’80% all’estero. L’America vale il 25% del nostro fatturato. Stiamo rendendo operativa una sede a Charlotte in North Carolina, perché non possiamo pensare di rinunciare a una parte così importante di business”.

Il presidente tycoon non ha mai nascosto questo suo obiettivo. Anche sui giornali italiani, che notoriamente sono alquanto provinciali, si è parlato del piano SelectUsa per incentivare gli insediamenti di aziende straniere. Si tratta di un progetto che risale al 2007, ma che Trump sta rilanciando alla grande con un programma fitto di incontri europei dei suoi emissari. Ancora dalla“Stampa” apprendiamo che Ron DeSantis, governatore repubblicano della Florida, era stato a novembre in Italia per un viaggio d’affari, passando dall’Unione industriali di Torino, dopo Viareggio (per gli interessi nella nautica) e Milano. Scopo: incontrare imprenditori e tranquillizzarli sull’opportunità di aprire sedi nel suo Stato. Il mese scorso, si è tenuta una serie di appuntamenti in Italia, organizzati con il supporto di AmCham, la Camera di commercio americana, che sta organizzando un grande evento finale nel Bel Paese per metà maggio.

Non sappiamo come andrà a finire la missione di Giorgia Meloni, ma azzardiamo una spiegazione chiara sulla strategia di Trump verso le imprese. Più che l’età dell’oro, si deve ridare vita all’età della ricostruzione, come dopo una guerra. La patria della globalizzazione e della teoria economica delle “porte aperte” (vedi Thomas Zeiler, L’economia mondiale dal 1945 a oggi) ha subìto infatti i contraccolpi della globalizzazione. Secondo un articolo di Michael Beckley, pubblicato dalla prestigiosa rivista “Foreign Affairs”, negli Stati Uniti le conseguenze dell’apertura dei mercati sono state “corrosive”. La globalizzazione ha alimentato la crescita, ma ha svuotato le industrie americane e concentrato i guadagni. Tra il 2000 e il 2020, la produzione industriale statunitense è diminuita di quasi il 10% e un posto di lavoro su tre è scomparso. Quasi tutta la crescita netta dell’occupazione è andata al 20% più ricco, lasciando indietro gran parte del Paese. “Le ricadute sociali sono state sconcertanti: aumento delle richieste di invalidità, overdose di droga e lavoratori in età più giovane che abbandonano la forza lavoro con numeri pari a quelli della Grande Depressione. Molte comunità ferite mantengono il loro peso politico grazie a un sistema elettorale che amplifica le voci rurali rispetto alle maggioranze urbane. Il risultato: una dura svolta dall’internazionalismo liberale verso il protezionismo e il controllo delle frontiere”.

L’economia reale è malata, ma il capitalismo americano (come d’altra parte quello mondiale) è ormai soprattutto finanziario. Così, nella guerra dei dazi, ci sono già dei vincitori. Proprio mentre i numeri uno delle banche e delle istituzioni finanziarie – da Jamie Dimon di Jp Morgan a David Solomon di Goldman Sachs e Larry Fink di BlackRock – lanciavano allarmi contro il rischio di recessione legato ai dazi di Trump, il trading azionario è stato il comparto più redditizio per le banche: nel primo trimestre di quest’anno, i ricavi dei cinque istituti di credito, che hanno finora presentato i conti, sono saliti complessivamente a circa sedici miliardi di dollari, con un incremento del 34% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Lo calcola il “Financial Times”. Si sono registrati ricavi record in Borsa.

Citiamo questi dati per far luce sul fenomeno opposto, ma speculare a quello del richiamo degli imprenditori europei negli Usa. L’altro problema di Trump, infatti, è quello di garantire lo sfondamento definitivo della finanza americana in Europa. I fondi di investimento e le banche americane devono penetrare sempre di più nell’economia europea e diventare determinanti nelle scelte politiche nazionali, a partire ovviamente dal riarmo. Sarebbe la colonizzazione definitiva del vecchio continente. La Mayflower torna a casa con le vesti dei banchieri o di venditori di satelliti.


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