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La cantieristica al centro dell’accordo Italia-USA per rilanciare l’industria navale americana


La cantieristica al centro dell’accordo Italia-USA per rilanciare l’industria navale americana

L’intesa tra Italia e Stati Uniti sulla cantieristica navale segna molto più di un accordo di settore: è il simbolo di una sfida strategica per l’autonomia industriale dell’Occidente. Dopo l’incontro tra la premier Giorgia Meloni e il presidente Donald Trump, la Casa Bianca ha diffuso un comunicato che parla chiaro: rafforzamento delle catene di approvvigionamento, rilancio delle basi industriali e collaborazioni strutturate tra due Paesi che intendono tornare protagonisti della manifattura globale.

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Il comunicato ufficiale parla di “rafforzamento delle catene di approvvigionamento” e di “rilancio delle basi industriali” attraverso iniziative comuni. L’Italia contribuirà alla ripartenza dello shipbuilding americano, mentre gli Stati Uniti guarderanno con interesse agli investimenti nel nostro Paese, anche grazie alla nuova Zona Economica Speciale. Dietro i toni istituzionali, c’è un messaggio politico chiaro: servono alleanze forti per contrastare la dipendenza da un modello industriale che, negli ultimi trent’anni, ha spostato il baricentro produttivo globale sempre più a Oriente.

Il ritorno dello shipbuilding è uno dei punti forti dell’agenda Trump 2.0. Durante il recente Discorso sullo Stato dell’Unione, l’ex presidente ha rilanciato con forza il tema: “We used to make so many ships. We don’t make them anymore very much. We will bring shipbuilding back“, ovvero: “Una volta facevamo tante navi. Ora non ne produciamo più molte. Riporteremo la cantieristica navale”. Pochi giorni dopo, ha annunciato la creazione di un “White House Shipbuilding Office”, con l’obiettivo di riportare la produzione navale americana a un livello strategico.

Ma a sorprendere non è tanto il ritorno dell’industria pesante nelle agende politiche, quanto la chiara volontà di allearsi con l’Italia, che entra in gioco con una delle sue eccellenze industriali: Fincantieri. Il gruppo italiano è presente negli Stati Uniti da oltre 15 anni, con quattro cantieri operativi e oltre 3.000 dipendenti, in gran parte coinvolti in programmi della Marina militare statunitense. In totale, Fincantieri ha investito quasi 800 milioni di dollari sul suolo americano, diventando un attore credibile nella ridefinizione dell’equilibrio industriale globale.

L’accordo tra Roma e Washington arriva in un momento chiave per il settore navale. Negli ultimi trent’anni, la cantieristica ha subito un processo di delocalizzazione aggressiva: oggi oltre il 50% della produzione mondiale è concentrato in Cina, mentre l’Europa è crollata a un misero 5%. Solo le costruzioni navali ad alta complessità, navi militari, da crociera, piattaforme offshore, restano appannaggio dell’Occidente.

È proprio su questa fascia high-tech, basata su innovazione, sostenibilità e digitalizzazione, che punta il nuovo asse Roma-Washington. Fincantieri, forte di un modello integrato che unisce competenze ingegneristiche e tecnologie avanzate, si posiziona come partner ideale per affrontare questa sfida. L’obiettivo è non competere sul costo, ma sulla qualità e sul valore aggiunto.

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A favorire l’intesa anche il recente varo della Zona Economica Speciale italiana, che promette di attrarre investimenti esteri offrendo un contesto favorevole allo sviluppo industriale. Gli Stati Uniti, dal canto loro, guardano con interesse al modello italiano come punto di riferimento per una reindustrializzazione intelligente e sostenibile.

La cantieristica diventa così cartina di tornasole della trasformazione industriale globale. Una partita che si gioca tra transizione energetica, digitalizzazione e tensioni geopolitiche. E in cui l’Italia, con la sua tradizione manifatturiera e i suoi asset strategici, può tornare ad avere un ruolo di primo piano.

L’alternativa è chiara: inseguire la Cina sulla quantità o rispondere con la qualità. L’alleanza tra Italia e Stati Uniti, se strutturata e coerente, potrebbe diventare il modello per un nuovo ciclo di reindustrializzazione occidentale, fondato non sulla nostalgia, ma sulla visione.





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