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Iran: “progressi” a Roma, ma strada rimane tortuosa


Nei colloqui indiretti a Roma tra Iran e Usa, mediati dall’Oman, la diplomazia ha fatto passi avanti verso la possibilità di un accordo sul programma nucleare di Teheran, ma il cammino che ha davanti rimane tortuoso. Il capo delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, si è mostrato cauto, ma ha parlato di “progressi”. Non ci sono state da parte iraniana critiche nei confronti degli Stati Uniti, né si è parlato delle minacce militari statunitensi contro Teheran. Sembra superata anche la perplessità sulle dichiarazioni “contraddittorie” dell’amministrazione Trump in merito al programma nucleare iraniano.
Le frizioni con cui le parti sono arrivate al tavolo negoziale alla residenza dell’ambasciatore dell’Oman a Roma riguardavano la modalità di svolgimento dei colloqui e il loro contenuto. Su entrambi i fronti si sono fatti passi avanti. Da oggi appare più definito il quadro su come proseguiranno i colloqui: si continuerà con la mediazione omanita e le delegazioni si vedranno a Muscat, che aveva già ospitato il primo round il 12 aprile scorso.
Sui contenuti del negoziato ci sono due questioni su cui si concentrano le divergenze: l’arricchimento dell’uranio in Iran e come assicurarsi la garanzia che gli Stati Uniti non si ritirino unilateralmente dall’accordo, come successo con la precedente intesa (il Jcpoa), siglata nel 2015 e da cui proprio la prima amministrazione Trump si ritirò nel 2018, aprendo poi la strada al graduale disimpegno di Teheran dai suoi obblighi. Per quanto riguarda l’arricchimento, la posizione di principio di Washington è che l’Iran dovrebbe cessare il processo e trasferire le sue scorte in un Paese terzo, come per esempio la Russia. Teheran, dal canto suo, sostiene che l’arricchimento dell’uranio non va fermato perché, secondo il diritto internazionale non è un’attività illegale. La Repubblica islamica garantisce che la natura del suo programma nucleare è civile, ma i livelli di arricchimento dell’uranio a cui è arrivata (60%) sono a pochi passi dall’arma nucleare (90%). Un altro punto fondamentale di controversia è la questione delle garanzie statunitensi contro il recesso da una possibile intesa. Diplomatici statunitensi sostengono che il problema risieda nel fatto che tecnicamente un presidente non ha l’autorità da solo di obbligare i suoi successori alla Casa Bianca ad attuare accordi internazionali. L’unica soluzione sarebbe la ratifica dell’accordo nella forma di un trattato internazionale col voto di almeno i due terzi del Senato, una prospettiva che appare molto difficile.
Le parti hanno compiuto avvicinamenti a Roma anche sull’oggetto stesso dei negoziati: gli Stati Uniti avrebbero voluto includere in agenda il programma missilistico della Repubblica islamica e della sua rete di proxy regionali; un’ipotesi da sempre respinta a Teheran e anche a Mosca, uno dei suoi maggiori alleati. Araghchi ha riferito che a Roma gli Stati Uniti – guidati dall’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff – “non hanno sollevato questioni che andassero oltre il programma nucleare”. E questo è sicuramente un successo strategico per Teheran.
Trump insiste che sta cercando una soluzione diplomatica e che “non ha fretta” di passare all’opzione militare. La Repubblica islamica continua a dirsi disposta a garantire volontariamente la natura pacifica del suo programma nucleare: smettendo di arricchire l’uranio oltre la quantità necessaria per l’uso pacifico e sotto la sorveglianza dell’Aiea, che è però la stessa situazione fissata dal Jcpoa. Witkoff ha spiegato che il negoziato mira alla sigla di quello che ha chiamato l’”accordo Trump”, ma quali condizioni e restrizioni preveda un tale piano non è chiaro.
Il proseguimento stesso dei negoziati è un altro successo per l’Iran, che versa in una grave crisi economica e ha estremamente bisogno di un allentamento delle sanzioni anche nella speranza di evitare che il diffuso malcontento riesploda in proteste di piazza. Il percorso diplomatico, però, ha seri nemici negli Stati Uniti – dove i media americani riportano di una spaccatura tra falchi e moderati dentro l’amministrazione Trump – ed è osteggiato da Israele, il più importante alleato degli Usa in Medio Oriente. Nell’esprimere la sua opposizione a un accordo, il premier Benjamin Netanyahu ha affermato senza mezzi termini che l’unica opzione accettabile è il “modello libico”, cioè lo smantellamento totale del programma nucleare degli ayatollah. Deluso dalla pace ancora non realizzate né a Gaza, né in Ucraina, Trump sembra intenzionato a portare a casa risultati concreti con l’Iran. L’orizzonte per una possibile firma dovrebbe essere ottobre, quando potrebbe scattare il meccanismo dello ‘snapback’, previsto dal Jcpoa – di cui ancora sono parte Russia, Cina, Germania, Francia, Regno Unito e Ue – vale a dire la reintroduzione di sanzioni. (AGI)
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