Venezia, il presidente di Federmeccanica Federico Visentin guarda ai marchi della Repubblica Popolare: «La loro espansione? Negoziamola»
Dazi di Trump o no, l’invasione dei prodotti cinesi si presenta quasi come una realtà ineluttabile se parliamo di mercato dell’automobile. Basta vedere cosa sta succedendo nelle concessionarie della regione dove iniziano ad emergere i primi dati dell’offensiva sulle vetture soprattutto elettriche: crescita a tripla e quadrupla cifra e dealer che annunciano di volersi buttare sui marchi della Repubblica Popolare per compensare la gelata sulle vendite dei produttori europei. «Sull’avanzata che avranno i cinesi nelle auto elettriche non c’è discussione», premette Federico Visentin, presidente di Federmeccanica e proprietario della Mevis di Rosà, azienda che agisce proprio nella componentistica di settore.
Visentin, lo dice da tempo: la via è indurre i cinesi a produrre qua.
«Non sono certo i dazi a fermarli in Europa, d’altronde quelli che sono stati introdotti proprio dall’Ue prima di Trump, lo scorso anno, non stanno avendo evidentemente grande efficacia. Dobbiamo prendere atto che sulle auto elettriche non solo riescono a essere molto competitivi sui costi, ma assai attrattivi su altri fronti: la tecnologia delle loro vetture non è niente male».
Tra l’altro le tariffe d’importazione sono un’arma spuntata nel momento in cui produttori come Byd impiantano fabbriche nell’Unione europea. Abbiamo perso la partita e dobbiamo arrenderci?
«Dobbiamo accompagnare questo cambiamento, condizionando l’espansione. Della necessità di un accordo con i cinesi mi pare abbia parlato anche Luca De Meo, amministratore delegato del gruppo Renault e fino a pochi mesi fa presidente dell’associazione dei costruttori europei, l’Acea. L’obiettivo per salvaguardare il sistema europeo non deve essere di impedir loro l’avanzata ma di governarla: conquistino il 10 o il 15% del nostro mercato, a fronte di uno scambio. È il modo per evitare che si prendano il 50 o il 100 per cento».
E in cosa consiste lo scambio?
«Si faccia in modo che ci sia un trasferimento di know how, soprattutto nell’innovazione di processo».
Lei ha parlato più volte dell’obiettivo di far loro aprire fabbriche nel nostro continente. Adesso c’è il fenomeno Byd.
«Questa marca cinese come sappiamo sta avviando la produzione in Ungheria, dove conta già da quest’anno di sfornare 300 mila auto. Ne stanno programmando una in Turchia e mi piacerebbe che il terzo stabilimento fosse impiantato in Italia. Ma perché ci siano le condizioni dovrebbero cambiare un po’ di cose, a cominciare dai costi dell’energia che, così come sono nel nostro Paese, non possono che allontanare gli operatori industriali stranieri».
A febbraio proprio Byd ha incontrato i rappresentanti della filiera italiana della componentistica, di cui il Veneto rappresenta un pezzo importante.
«Questo è il punto: se fanno le auto da noi in Europa è fondamentale che acquistino i nostri componenti. A Torino si sono presentati con dieci team, hanno fatto un sacco di incontri. Per il momento, abbiamo ricevuto solo una lettera dei loro dealer che ci propongono di comprare le loro auto elettriche Byd (ride, ndr). Però è importante che abbiano annunciato l’intenzione di assumere 50 designer a Milano. Questo è lo scambio: non far aprire loro fabbriche-cacciavite ma spingerli a promuovere centri di sviluppo».
I dazi, si diceva, non funzionano.
«Lo dicevo prima che arrivasse il ciclone Trump, cioè quando il tema era l’imposizione delle tariffe dall’Unione europea verso, appunto, le auto cinesi. Non servono a fermarli. Possono essere al massimo uno strumento negoziale in via temporanea, proprio per accompagnare e condizionare questa espansione».
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