«È solo quando gli accademici e i ricercatori sono liberi di perseguire i propri progetti che il risultato del loro lavoro è veramente rivoluzionario e innovativo. Senza libertà accademica, neghiamo il progresso sociale per l’umanità». Roberta Metsola, Presidente del Parlamento Europeo, in un intervento del novembre 2023.
Negli ultimi tre mesi, dall’insediamento dell’amministrazione Trump, si è verificato un vero e proprio attacco all’indipendenza e alla libertà accademica nei grandi atenei statunitensi, considerati baluardo della cultura liberale e nemici del nazionalismo emergente. In pochi mesi l’amministrazione Trump ha tagliato in modo rilevante i finanziamenti alla ricerca scientifica, interrotto numerosi programmi finanziati dal governo federale, licenziato migliaia di impiegati federali, inclusi scienziati — molti dei quali successivamente riassunti per effetto di provvedimenti giudiziari — e minacciato altri licenziamenti. A tutto ciò si sono aggiunti casi di fermi e arresti di studenti e docenti considerati nemici del Paese.
Più di recente, ha suscitato sorpresa e scalpore la lettera inviata all’università di Harvard lo scorso 11 aprile, nella quale il governo chiede all’ateneo — pena la perdita di oltre due miliardi di finanziamenti federali — di adottare una serie di misure che, mascherate dall’obiettivo di eliminare politiche antisemite e di diversità, nascondono richieste invasive che interferiscono in modo rilevante nella gestione dell’ateneo. Fra queste, la richiesta di sottoporre a verifica («audit») le opinioni di studenti, docenti e staff, e in questo modo di attribuire al governo un potere di veto nella selezione degli studenti e nell’assunzione dei docenti. Il rifiuto del Presidente di Harvard ha generato il congelamento di 2,2 miliardi di dollari di fondi.
Queste misure contro la scienza e la libertà accademica assumono il carattere di un attacco politico al sistema pluralistico e all’ordine liberaldemocratico, giustificate agli occhi di molti americani da alcuni eccessi della cultura woke del recente passato tollerati dai grandi atenei americani. Esse hanno generato incertezza e in alcuni casi persino paura nel mondo accademico, spingendo numerosi studenti, ricercatori e scienziati a considerare di emigrare verso altri Paesi. Una recente indagine condotta dalla rivista Nature su un campione di 1.600 ricercatori statunitensi ha mostrato come il 75% di loro considera seriamente l’ipotesi di emigrare dagli Stati Uniti, in particolare verso Canada e Europa. Questa tendenza è particolarmente pronunciata fra gli scienziati che sono ancora all’inizio della propria carriera.
Un Paese che nell’ultimo secolo ha costruito la sua leadership economica, militare e tecnologica in buona parte anche grazie alla capacità dei propri atenei e centri di ricerca di attrarre capitale umano dal resto del mondo, offrendo a giovani talenti di ogni nazionalità un ambiente stimolante e condizioni di lavoro certe e meritocratiche, si trova ora in una condizione opposta: incertezza e paure spingono scienziati e docenti a cercare vie alternative per condurre la propria attività di ricerca.
Per quanto triste, questo scenario rappresenta un’evidente opportunità per l’Europa, la quale può favorire, almeno in parte, il rientro dei ricercatori, invertendo così quel brain drain che per decenni ha caratterizzato il rapporto fra i due continenti e ha visto migliaia di giovani formati nelle università europee migrare verso gli Stati Uniti.
Nelle università e nei centri di ricerca europei i sintomi di questo cambiamento sono già evidenti: centinaia di domande di ricercatori e scienziati che lavorano negli Usa, i quali si presentano come rifugiati scientifici a fronte dei tagli dell’amministrazione americana. Nella mia modesta esperienza, i segnali sono già evidenti nell’università dove lavoro, la Bocconi, così come in Ifom, il centro di oncologia molecolare controllato dalla Fondazione AIRC: giovani ricercatori e professori che operano negli Stati Uniti fanno domanda per posizioni di varia natura.
Come rispondere a questo fenomeno? Alcuni Paesi europei si sono già attivati in modo autonomo. Il Presidente francese Macron, ad esempio, ha dichiarato pubblicamente che «In Francia la ricerca è una priorità, l’innovazione una cultura e la scienza un orizzonte senza limite». Il governo italiano ha — saggiamente — stanziato 50 milioni di euro dei fondi Pnnr per un bando volto a riportare in Italia giovani ricercatori. Numerosi atenei e centri di ricerca europei hanno stanziato fondi ad hoc per attrarre ricercatori in uscita dagli Stati Uniti.
Una risposta coordinata a livello europeo, sostenuta da un importante impegno economico, sarebbe più efficace e capace di segnalare la determinazione dell’Europa circa il valore che l’Unione attribuisce alla scienza e alla libertà accademica. Una prima risposta è arrivata grazie alla lungimiranza di due donne ai vertici dell’Ue: la Commissaria alla ricerca e all’innovazione, Ekaterina Zaharieva, e la presidente dello European Research Council (ERC), Maria Leptin. L’ERC ha annunciato un raddoppio dei fondi volti a coprire le spese di «relocation», da uno a due milioni di euro, per i ricercatori vincitori di un grant che accettano di trasferirsi in Europa.
Si tratta di un primo importante provvedimento, che tuttavia rappresenta una misura «una tantum», limitandosi a coprire i soli costi di relocation. Sarebbe importante approfittare di questa fase delicata per introdurre nuovi finanziamenti, riservati a scienziati e ricercatori che lavorano al di fuori dei confini dell’Unione e intendono trasferirsi in una università o centro di ricerca di uno dei Paesi Europei. Un provvedimento analogo al bando che la Fondazione AIRC stanzia ogni anno per favorire il rientro di giovani scienziati in Italia. Questo dovrebbe accompagnarsi a un rinnovato impegno europeo per la tutela della libertà accademica, minacciata oggi anche in alcuni Paesi dell’Unione, quale l’Ungheria di Orbán, volto a realizzare un grande spazio europeo della scienza e della ricerca, coerentemente con la logica della quinta libertà del mercato unico recentemente proposta dal rapporto predisposto da Enrico Letta.
26 aprile 2025
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