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In Italia l’elettricità per le imprese più cara d’Europa


I prezzi del gas sono lontani dai picchi raggiunti all’inizio della guerra in Ucraina. L’emergenza legata all’aumento dei costi per le imprese è superata? Tutt’altro. Perché è importante, certo, il costo del megawattora in valore assoluto. Ma a fare la differenza quando si parla di competitività è il divario di costo con gli altri Paesi europei. Se una multinazionale deve decidere dove aprire uno stabilimento per servire il Vecchio Continente con i suoi prodotti, terrà conto dei costi. Bene: in Italia il costo dell’energia è il più alto d’Europa. Era già così prima del Covid. Negli ultimi mesi il divario tende a crescere.

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Costi superiori alla media Ue anche del 60%

Chiarificatore è l’istogramma che mostriamo qui, frutto dell’elaborazione di Massimo Beccarello, professore di Economia industriale all’Università Milano Bicocca ed esperto di Economia del settore energetico. In sostanza se partiamo dal gennaio 2024 a oggi, l’Italia ha sempre avuto, mese dopo mese, il costo dell’energia più alto d’Europa. Rispetto alla media europea parlamo di un maggior costo che ha oscillato negli ultimi 15 mesi da un minimo del 26% in più a un massimo del 60%. Il margine di miglioramento è notevole. Una cosa è certa: se non si colma lo «spread» sul costo dell’energia la capacità del Paese di difendere il suo patrimonio industriale risulterà ridotta. Sempre più difficilmente investitori stranieri sceglieranno l’Italia. Per chiarezza, non si sta parlando qui dei settori energivori come la siderurgia, per esempio, che possono già contare su una serie di aiuti e agevolazioni (interconnector, energy release). Ma di tutte le altre imprese che non possono contare su agevolazioni particolari.

La leva degli oneri di sistema

Ridurre lo «spread energetico» per le imprese dovrebbe essere un’ossessione per il Paese, un obiettivo in grado di aggregare gli sforzi di tutti, dal governo alle parti sociali. Le recenti tensioni tra Confindustria e governo su questo tema, oltre che all’interno della stessa Confindustria, mostrano che sta succedendo esattamente il contrario. Una prima leva per ridurre il costo dell’energia per le imprese sarebbe tagliare i cosiddetti «oneri di sistema» un pezzo di bolletta che finisce dritta nelle casse dello Stato. Il decreto bollette ha appunto tagliato gli oneri di sistema per 800 milioni, ma soltanto alle aziende più piccole, quelle artigiane e commerciali. D’altra parte «si è fatto il possibile» come ha ricordato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. I vincoli di bilancio sono quelli che sono.

Quel miliardo e 300 milioni di costi aggiuntivi

In realtà di leve potrebbero essercene anche altre. Ma sono appunto quelle più divisive e su cui il confronto tra imprese consumatrici e imprese produttrici di energia (queste ultime riunite in Elettricità futura) è più duro. La prima questione riguarda il divario di costo del gas rispetto al Ttf di Amsterdam, il benchmark del costo del gas per l’Europa. Secondo Confindustria, c’è un divario che pesa per 1,3 miliardi l’anno. Le aziende produttrici dicono che questo mark up dipende dal trasporto del gas che viene dal Nord. «Forse una via potrebbe essere in particolare nei mesi in cui i consumi sono più bassi limitare i rifornimenti proprio da quei Paesi che incorporano costi di trasporto più alti», segnala il professor Beccarello. 

I limiti del mercato

Poi c’è la controversa questione del disaccoppiamento. In pratica, oggi il Mwh viene venduto al prezzo di produzione più alto, che è quello della centrale a gas meno efficiente. Chi vende energia da solare o eolico ha quindi margini più alti. Ancora più alti ce li ha chi vende energia idroelettrica. Confindustria con una voce (quella delle piccole e medie imprese) chiede che si provi quantomeno a convincere l’Europa che l’emergenza legata alla deindustrializzazione è tale da giustificare la vendita alle imprese dell’energia da rinnovabili a prezzi più bassi. Con un’altra voce (quella di Elettricità futura) Confindustria accusa le piccole imprese di voler disconoscere il mercato per chiedere di fatto un tetto di prezzo imposto dall’alto in modo ingiustificato. Tutti hanno delle ragioni e le usano a sostegno del proprio interesse particolare. «Il rischio è che, da una parte e dall’altra, l’appellarsi al mercato diventi una specie di paravento – osserva Beccarello -. In realtà nel settore energetico il mercato sta mostrando che non sempre funziona o è messo nelle condizioni di funzionare al meglio. Forse si potrebbe con un po’ di onestà partire da qui per ricomporre le posizioni a favore di un interesse collettivo». 

La sfida per il governo

Non è difficile leggere dietro i «limiti del mercato» evocati da Beccarello gli scarsi o nulli benefici per il consumatore derivanti dal passaggio al mercato libero, la difficoltà a mettere a gara le concessioni per l’idroelettrico, i sussidi del capacity market per sostenere gli impianti a gas che altrimenti avrebbero chiuso, gli 11 miliardi di sussidi alle rinnovabili. Lo scontro tra imprese sull’energia può terromotare Confindustria. Ma sfida anche il governo. Nel suo doppio ruolo di artefice delle politiche industriali e di presenza, attraverso il Tesoro, nei campioni nazionali della produzione di quell’energia che tanto le imprese vorrebbero a più buon mercato. 

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