Dall’inizio del nuovo secolo la Germania ha visto crescere la sua produttività del 16 per cento, la Spagna ha superato il 18, la Francia ha sfiorato il 10, mentre in Italia – cenerentola tra le grandi economie del Vecchio Continente – il principale indicatore della competitività di un sistema economico è salito soltanto del 2,5 per cento.
Ed è proprio da qui, dalla produttività, che bisogna partire per comprendere perché i salari nel nostro Paese crescono più lentamente rispetto ad altre nazioni. Salari che per la cronaca, soltanto nel 2024 sono saliti (del 3,1 per cento) più dell’inflazione (1 per cento), ma soltanto sull’onda dei rinnovi contrattuali nel pubblico e nel privato, attesi da anni.
Più in generale, in questi ultimi venticinquenni il mondo – non soltanto l’Italia e l’Europa – è cambiato in maniera vorticoso: si sono succedute crisi finanziarie che hanno eroso il risparmio dei cittadini e le riserve delle aziende; la globalizzazione ha definitivamente fatto saltare le barriere e le rendite di posizioni nei commerci; la tecnologia si è trasformata in uno spartiacque che decide quali settori possano garantire ancora profitti e quali no. Senza dimenticare, in questo scenario, la più grande pandemia dell’era contemporanea, il ritorno della guerra nel territorio europeo, la denalità, l’esplosione dei prezzi dell’energia o la ricerca spasmodica di nuovi materiali per realizzare le nuove produzioni sempre più digitali. Che in Europa sono quasi del tutto assenti e che hanno sostituito l’acciaio, il gas e il carbone sul quale si è fondato lo sviluppo del Vecchio Continente – Italia compresa – dal Dopoguerra fino alla fine del secolo scorso.
In questo ultimo quarto di secolo il sistema Italia ha riconvertito lentamente imprese e lavoratori dei settori dove la produzione è diventata meno conveniente – i cosiddetti segmenti a basso valore aggiunto – rispetto a quanto fatto altrove. Ha investito in ricerca e sviluppo poco più di un terzo della media europea e non è riuscita a recuperare il gap di laureati in materie scientifiche. Ha visto diminuire la dimensione media delle sue aziende, riducendo anche il numero dei campioni nazionali, migliori ambasciatori del nostro Made in Italy.
RISORSE
A fronte di questi elementi – sempre restando all’Italia – è più difficile ottimizzare al massimo l’efficienza con la quale si impiegano le risorse umane nel processo produttivo, cioè a indirizzare il lavoro verso beni e servizi più innovativi. Da vendere poi prezzi più alti e in quantità maggiori, in modo anche da aumentare i profitti delle aziende e – di conseguenza – gli stipendi dei dipendenti.
Certo, oggi l’Italia viaggia verso la piena occupazione – con un tasso complessivo del 62,8 per cento – e potrebbe diventare a fine anno il quarto esportare al mondo. Ma i suoi gap strutturali finiscono per indebolire i salari, a penalizzarli per esempio di fronte alle fiammate inflazionistiche.
Per capire la situazione, è utile riportare alcuni numeri: Eurostat – basandosi su dati del 2022 – ha calcolato che la retribuzione oraria mediana in Italia è di 13,05 euro lordi contro i quasi 15 di quella comunitaria. Circa quindici in meno della Danimarca o sei in meno rispetto alla Germania. Tra l’inizio del 2021 e quello del 2025 i prezzi sono aumentati del 18 per cento, mentre le retribuzioni contrattuali sono salite di meno della metà (+8,2). E nonostante il rinnovo di importanti piattaforme, come quella del commercio, nel 2024 la metà dei contratti di lavoro secondo l’Istat erano scaduti. E con i contratti scaduti gli stipendi sono fermi, mentre gli strumenti per difendere l’inflazione hanno le armi spuntate.
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