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Riforma della scuola: l’industria della conoscenza è la grande assente


La nuova conoscenza è spesso funzionale anche alla crescita economica. Ma chi si dovrebbe occupare dell’offerta di nuovi e adeguati ‘saperi’? Un’approfondita analisi dei bisogni formativi – con la manutenzione e costruzione delle offerte formative e dei loro contenuti – dovrebbe essere anche il punto focale di qualsiasi riforma scolastica, chiamata a definire nuovi percorsi di formazione, ma anche al loro updating e all’allargamento delle conoscenze attuali.

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Il settore che deve far fronte al maggior bisogno di nuova conoscenza, soprattutto strategica, per sostenere la crescita economica e il mantenimento del welfare è quello che riguarda l’ordinamento dell’istruzione tecnica e professionale. Si tratta di un ambito oggetto di riforme che, qualunque esse siano, incideranno sull’economia del nostro Paese, sull’occupazione e sul mercato del lavoro. Di tutto ciò ne ho già scritto nel saggio Ricostruire l’istruzione tecnica – Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare (GueriniNext, 2024).

In particolare la parte di riforma che maggiormente ci interessa è quella che dovrebbe percepire e farsi carico dei nuovi bisogni formativi reclamati dal sistema economico e sociale del Paese, secondo le prospettive di intervento che dovrebbero competere al mondo della scuola. Significa che dei bisogni formativi non se ne deve occupare solo il sistema scolastico – che comunque ha già una propria precisa responsabilità da assolvere – ma pure altri soggetti, che possono essere raggruppati nel ‘macrogruppo’ dell’industria della conoscenza. Questa riforma, infatti, inciderà sull’economia, sull’occupazione e quindi sul mercato del lavoro e quindi sul nostro welfare a partire dal sistema previdenziale.

Affidarsi ai pilastri qualificati della conoscenza

Nell’industria della conoscenza dovrebbero trovare posto gli esperti più qualificati per indirizzare, riempire e manutenere con contenuti e metodi il presidio della creazione e diffusione delle competenze di cui ha bisogno il nostro Paese, soprattutto di quelle strategiche. Si tratta di persone – presidiatori e produttori di knowledge – che possono essere individuate in tutti i settori. È poi bene ricordare che quando si parla di formazione c’è sempre molta semplificazione al ribasso: l’insufficiente qualificata offerta di formazione è anche il risultato della fragilità dei pilastri di sostegno.

Proprio chi appartiene all’industria della conoscenza è assente nei tavoli e nei dibattiti delle riforme scolastiche. Eppure nei consessi di rivisitazione della formazione tecnica e professionale, queste persone potrebbero (dovrebbero) portare grandi contributi di metodo e di contenuti: capacità di analisi degli scenari economici e sociali; comprensione delle trasformazioni macro e micro che sono in gioco; capacità di rappresentazione e di modellizzazione dei sistemi delle imprese; definizione dei modelli di governance con i profili di ruolo delle varie professioni; mappatura, qualificazione e standardizzazione delle competenze; identificazione e categorizzazione dei saperi; implementazione dei processi di Knowledge management e collegamento con i processi di Performance management.

La differenza tra bisogni prestazionali e formativi

Quando si parla di bisogni formativi all’interno di una azienda – e da lì è facile partire per meglio comprendere il flusso logico da applicare – il processo di decision making che deve essere attivato è molto variegato. Innanzitutto, richiede un necessario preliminare allineamento tra i vari stakeholder, intesi come le varie funzioni aziendali, condotto secondo una grammatica rigorosa dove si devono allineare gli obiettivi di business con i bisogni prestazionali per giungere a quelli formativi. Infatti, i bisogni prestazionali originano dalla strategia del modello di business e quindi dai business value driver e dai key business process. Questi elementi sono legati strettamente ai risultati aziendali, all’organizzazione, ai ruoli e ai processi. È un territorio di cui si occupa un particolare tipo di management aziendale che non è quello delle risorse umane o di chi gestisce la formazione.

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Ci si imbatte allora nella prima distinzione tra bisogni prestazionali e bisogni formativi. Quando i bisogni sono espressi dal mercato del lavoro o dalle aziende, si è in presenza di bisogni prestazionali; poche volte dalle prestazioni si arrivano a declinare le competenze e quindi i bisogni di conoscenza e pertanto di formazione. Quando una agenzia di lavoro interinale è alla ricerca di un operaio meccanico per le lavorazioni con le macchine utensili, non declina un bisogno di competenza o di formazione, bensì un mestiere a cui è assoggettabile con facilità una prestazione.

Chi si occupa di progettazione di sistemi formativi, prevalentemente il mondo scolastico, qualora le carenze prestazionali del mercato del lavoro fossero riconducibili all’inadeguatezza del sistema formativo, dovrebbe trasformare i deficit delle prestazioni richieste in nuove e aggiuntive competenze, quindi conoscenze, estrapolate dall’analisi dei nuovi bisogni formativi. In gergo tecnico è il ‘mettere mano’ all’obsolescenza dei saperi, ma anche delle architetture formative e dei percorsi che le compongono.

Quindi, tra le professioni e le prestazioni mancanti e i corrispondenti bisogni di formazione c’è un gap da riempire che richiede un allineamento, con un processo quantitativo e di contenuti. L’insieme delle attività da svolgere costituiscono la complessa progettazione formativa, che si applica dalla fattispecie della riforma completa di un sistema scolastico o di una parte di esso, alla più piccola progettazione di un singolo percorso formativo o modulo corsuale.

Il dialogo (difficile) tra scuola e azienda

Ma da chi sono espressi i bisogni di cui dobbiamo occuparci e come sono classificabili? I bisogni prestazionali sono espressi dal sistema economico e dei servizi in diverse modalità e sono l’esito di una classificazione e reinterpretazione delle trasformazioni e dei cambiamenti che toccano i vari settori e sottosettori dell’economia e dei servizi fino ad arrivare alle singole imprese. Non sempre sono pronti per un immediato utilizzo: è la ragione per la quale necessitano di essere sottoposti ad alcuni processi di reinterpretazione.

Quando si sostiene che la scuola deve parlare con le aziende è, molto spesso, solo una affermazione di principio, che avrebbe bisogno di essere declinata, specificando qual è il sistema delle imprese e il loro livello di rappresentanza dei bisogni, con cui si vuole parlare e con quali metodi, linguaggi e grammatiche. Infatti, i bisogni prestazionali delle organizzazioni devono poi essere contestualizzati in un modello organizzativo e declinati opportunamente in bisogni formativi, secondo un flusso logico che ci porta ai vari profili di ruolo, alle loro competenze chiave e quindi alla conoscenza strategica di cui si ha bisogno e ai metodi e gli strumenti per riallinearli con i bisogni di nuove prestazioni.

A questo punto, i bisogni formativi ben declinati e individuati, potrebbero essere classificabili in almeno due prime macrocategorie. La prima riguarda i bisogni espressi su specifiche richieste dalle imprese, che potremmo definire ‘on demand’ e che riguardano bisogni da soddisfare generalmente su orizzonti temporali di breve periodo. La seconda categoria, spesse volte meno particolareggiata, esprime bisogni che riguardano un più allargato sistema economico e sociale e che si identificano su orizzonti di più lungo periodo.

Soddisfare i bisogni (formativi) del mercato

Chi sono allora le istituzioni a cui compete soddisfare questi bisogni? Anche qui siamo in presenza di due macrocategorie di soggetti. Da una parte sta l’istituzione scolastica che dovrebbe maggiormente occuparsi dei bisogni che si proiettano su un orizzonte lungo, sia pur con la formazione professionale che, nelle sue diverse fattispecie, è anche preposta per dare delle risposte più immediate. Dall’altra parte sta invece l’industria della conoscenza, ossia l’insieme delle imprese di consulenza e di formazione che si occupano anche del lifelong learning. L’industria della conoscenza nel nostro Paese – basterebbe conoscere il suo portfolio di offerta – ha avuto una crescita importante, probabilmente anche per aver dovuto esercitare il ruolo di supplenza per le carenze dell’istruzione pubblica che non si è allineata, come successo altrove, ai grandi cambiamenti dell’economia globale.

Questi due mondi nell’essere operativi, devono ‘mettere sul mercato’ la loro ‘merce’, intesa come l’offerta di formazione, articolata in varie modalità architetturali in funzione dei target di destinazione. Occorre, però, che questa offerta sia in grado di soddisfare i bisogni formativi espressi dal ‘mercato’. Per completezza, va anche detto che l’attrattività di un sistema scolastico è una funzione che non dipende solo dalla qualità dell’offerta formativa, ma anche dalla capacità attraverso un adeguato orientamento – spesso mancante – di farne comprendere la sua importanza e la sua funzione per soddisfare anche le aspettative dei giovani, spesso ignorate.

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Allora viene da chiederci – e qui sta il vero paradosso – come si costruisce la giusta offerta formativa per soddisfare il mercato ‘prestazionale’ dove la domanda non è solo espressa dalla dimensione dei bisogni dell’economia, ma deve interessare anche il bisogno di una adeguata employability? La scuola risponde ricorrendo al solito ‘mantra’, perché dice che le aziende devono dire quali sono i loro bisogni. Ma nessuno poi verifica e monitora la consistenza e l’efficacia delle soluzioni proposte. Oppure si dice che bisogna intensificare le relazioni tra scuole e aziende. Bene, ma dietro lo slogan c’è spesso un vuoto di concretezza, che porta al progressivo peggioramento delle performance del sistema scolastico. E così, alla fine, sul ‘mercato’, da ciò che si osserva, manca spesso la ‘merce’ giusta, al momento opportuno.

Anticipare i cambiamenti del mercato

Per l’industria della conoscenza invece le cose sono molto diverse. Se le aziende che appartengono al settore dell’industria della conoscenza non mettessero la ‘merce’ giusta sul mercato, quindi un qualificato e adeguato portfolio di proposte formative attrattive e potenzialmente generatrici di risultati, non riuscirebbero a vendere i loro servizi e sarebbero destinate a chiudere l’attività (salvo il caso che il loro modello di business sia sostenuto dai soldi pubblici).

Ma l’industria della conoscenza non può nemmeno aspettare, per costruire il suo portfolio di offerta, di conoscere i bisogni del mercato. Non può agire solo in modalità reattiva, ossia pull, ma si deve preoccupare di agire in modalità proattiva che significa push, prevedendo e anticipando i bisogni del mercato. Anche perché occorre osservare che l’employability delle professioni non è una funzione statica, ma evolve nel tempo anche con dinamiche repentine.

Usando la solita metafora dell’approccio clinico allo studio dei sistemi, l’industria della conoscenza deve anticipare la sintomatologia degli ‘aventi bisogno’ e disporre già di tutte le ‘medicine’ pronte per essere adattate e confezionate per attivare le terapie formative necessarie alle esigenze che via via si presentano. E molte volte la visione anticipatrice deve condurre anche allo studio e alla preparazione dei ‘principi attivi’ dei farmaci che nel futuro dovranno essere utilizzati.

Il pericoloso immobilismo della scuola

I due contesti esaminati sono quindi completamente diversi tra loro. Su queste diversità non si è mai riflettuto, rimanendo in una ambiguità da cui si fa fatica a uscirne, nonostante ci siano ampi spazi di integrazione. È una occasione persa. L’industria della conoscenza – come tutte le altre industre – per avere successo sul mercato deve occuparsi con anticipo di come ‘gira’ l’economia, di quali trasformazioni economiche, sociali e aziendali stanno avvenendo. Deve conoscere molto bene il funzionamento dei vari settori economici, dei modelli aziendali, delle culture imprenditoriali, delle politiche di Knowledge management e di come si devono interfacciare con le politiche del Performance management, insomma di tutto quello che necessita conoscere per poter fornire nuovo e tangibile ‘valore’ a chi ne ha bisogno.

L’industria della conoscenza, per fare tutto questo, investe continuamente in una ‘nuova conoscenza’ per comporre l’offerta futura: recluta i migliori esperti di settore; fa studi e ricerca e inventa nuovi ‘principi attivi’ che poi trasforma in nuovi argomenti della conoscenza da customizzare e assemblare in funzione delle specifiche necessità. Analizzando i bisogni in un orizzonte molto ampio, manutiene, costruisce, innova continuamente nuova conoscenza, che, attraverso altri processi consulenziali, è poi trasformata in nuove prestazioni e cambiamenti (quindi genera ‘valore’).

La scuola non fa niente di tutto ciò o fa molto poco. Rimane per anni con la stessa ‘merce’ sul mercato, senza produrre nuova attrattività, quella di cui avremmo bisogno per ricostruire l’istruzione tecnica. La scuola aspetta le aziende e si affida alle imprese. Ma il mestiere delle nostre aziende – la maggior parte sono di piccole dimensioni e non sempre sono dotate di una efficace e praticata social responsibility non è quello di sostituirsi alla scuola, semmai con l’utilizzo della conoscenza prodotta da quest’ultima deve generare migliori prestazioni aziendali e quindi crescita economica e salvaguardia del welfare. Resta quindi ancora un buco, con tante attività mancanti, che deve essere colmato. Dunque: come mai al tavolo delle discussioni per le riforme manca l’industria della conoscenza?

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