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Investimenti Sì, finanziarizzazione No | il manifesto


Nel caos globale provocato dalle aggressive politiche di Trump, in particolare con la guerra commerciale sui dazi, l’Europa dovrebbe procedere a un macrostimolo economico interno, svolgendo così una fondamentale funzione di riequilibrio mirante alla ricostruzione di un nuovo ordine internazionale multipolare. A tale scopo è decisivo che gli investimenti tornino ad essere il motore del suo sviluppo, investimenti non privati ma soprattutto pubblici, investimenti non in armi ma volti a ridisegnare l’intero modello di sviluppo europeo riconducendolo, da un’eccessiva proiezione verso le esportazioni – il che è peraltro alla base delle accuse di “parassitismo” rivolte da Trump/Vance a noi europei –, all’alimentazione della domanda interna e dei beni pubblici continentali. In questo senso è da salutare positivamente l’annunciata intenzione della Commissione europea di adottare misure che favoriscano la canalizzazione verso gli investimenti dell’enorme risparmio europeo (10 mila miliardi di euro solo nei conti correnti). Attenzione, però: queste misure non debbono consistere né in ulteriori incentivazioni della previdenza privata, né in politiche di veicolazioni del risparmio verso strumenti finanziari contenenti sempre qualche grado di rischio, entrambe invece suggerite sia dal Rapporto Letta sulla competitività, sia dal Piano Draghi sugli investimenti. Il punto è che i due canali hanno molti aspetti in comune: ambedue, infatti – sia il canale previdenziale privato, sia il canale finanziario – affidano il risparmio delle famiglie ai mercati finanziari con tutti i rischi annessi e connessi, rischi che sono la ragione sostanziale per cui le famiglie preferiscono mettersi al riparo dei conti correnti e riluttano a entrare nei giochi finanziari.

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Il comportamento prudente delle famiglie si è dimostrato lungimirante anche in passato: basti ricordare le drammatiche conseguenze della crisi finanziaria del 2007/2008 che costrinsero gli Stati a salvare fondi, intermediari, assicurazioni e i famigerati Piani 401k da cui molti americani dipendevano per la sopravvivenza delle loro pensioni private. D’altro canto, per quanto riguarda secondi o terzi pilastri previdenziali (esaltati dai vertici delle assicurazioni come Philippe Donnet, ceo delle Generali), in situazioni occupazionali caratterizzate da lavoratori precari, flessibili, a tempo, scarsamente retribuiti, dove si può pensare che le persone trovino le risorse per contribuire alla previdenza privata? Se invece le risorse potessero essere trovate, allora sarebbe decisamente meglio che le versassero, come contribuzione aggiuntiva, alla molto più sicura previdenza pubblica, così incrementando di un pari ammontare le loro prestazioni pensionistiche future.

Va considerato che la finanziarizzazione, per parte sua, si è sviluppata – grazie alla benevolenza dei regolatori e agli spazi aperti dalle privatizzazioni – dando vita a una fauna di intermediari, trasformando in titoli scambiabili sul mercato rapporti di debito e di credito prima non scambiabili, generando singolari piramidi finanziarie e trasformando la gestione del rischio in aggressiva assunzione del rischio, alimentando l’enfasi sugli stock azionari, sulla proliferazione delle stock options, trasformando in principio ispiratore dell’attività economica non la produzione ma il valore azionario. E così i livelli parossistici di finanziarizzazione dell’economia ancora oggi in vertiginosa crescita sono stati alla base dell’incredibile ulteriore aumento delle diseguaglianze. A ciò ha contribuito l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo e per questo alcuni propongono di intervenire drasticamente (fino a vietarli) sui suoi meccanismi, come il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire fittiziamente il valore (così da remunerare al rialzo i propri manager) che a Wall Street supereranno i mille miliardi di dollari nel 2025 – e gli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options che deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione.

Dunque, le vie da seguire per rilanciare e sostenere gli investimenti debbono essere diverse. Innanzitutto occorre prevedere una migliore regolazione finanziaria. Ma per una canalizzazione più efficace del risparmio delle famiglie verso gli investimenti si può immaginare di ricorrere a strumenti innovativi. Si potrebbe riprendere, per esempio, una proposta avanzata da Anthony Atkinson prima di morire: offrire bond governativi (a livello europeo e nazionale) a un tasso reale di interesse positivo garantito, con una soglia massima detenibile per persona, attraverso i quali il miglioramento a condizioni sicure per i piccoli risparmiatori verrebbe a coincidere con una maggiore mobilitazione produttiva del loro risparmio.



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