Caro direttore,
secondo l’Istat, “le retribuzioni contrattuali reali di marzo 2025 sono ancora inferiori di circa l’8 per cento rispetto a quelle di gennaio 2021 […]. Perdite inferiori alla media si osservano in agricoltura e nell’industria, mentre situazioni più sfavorevoli si registrano nei settori dei servizi privati e della pubblica amministrazione”. Questi dati, a cui si è riferito con preoccupazione anche il presidente Mattarella, nella settimana scorsa hanno infiammato la polemica delle opposizioni e dei sindacati contro il governo. Polemica che ancora non si è placata. Cerchiamo allora di capire meglio come stanno realmente le cose.
Siamo certamente il paese dell’area Ocse in cui le retribuzioni dei lavoratori hanno perso maggiore potere potere d’acquisto di fronte all’inflazione. Per altro verso, il nostro mercato del lavoro ha registrato livelli record di occupazione e livelli minimi di disoccupazione (Ocse, Employment Outlook 2024). La contraddizione è solo apparente. Infatti, sono proprio i bassi salari che spingono le aziende italiane ad aumentare le assunzioni, perché meno costose degli investimenti in macchinari, tecnologie, ricerca e sviluppo.
Attenzione, però. Non è così per tutti. Ci sono stipendi che sono cresciuti, tenendo più o meno il passo con l’inflazione. E altri che sono rimasti fermi, impoverendo i loro percettori. Molto dipende dal settore in cui si lavora. Quando si parla di salari bassi occorre distinguere: si tratta dei salari dei servizi e del pubblico impiego, più che dei salari dell’industria. Dal 2001, gli stipendi sono aumentati del 75 per cento nell’industria, mentre nella pubblica amministrazione e nei servizi solo del 45 per cento.
Come è noto, i contratti nazionali stabiliscono l’aumento della busta paga ex ante, cioè sulla base dell’inflazione prevista dall’Istat per i tre anni successivi (indice Ipca, depurato dai beni energetici). Con l’impennata inflazionistica degli ultimi anni, questo meccanismo non ha retto. Le retribuzioni nel periodo 2020-2023 sono salite mediamente dell’8 per cento, mentre l’inflazione è cresciuta del 17 per cento. Questo fenomeno ha contribuito a contenere l’aumento dei prezzi, ma con conseguenze dolorose sulle buste paga,
Secondo l’Osservatorio JobPricing, a fronte di una media nazionale di 30.838 euro del Ral (Retribuzione annua lorda), le buste paga più pesanti sono quelle degli addetti dei servizi finanziari (45.906 euro), a seguire le utility (con 33.459 euro), l’industria di processo (32.259) e l’industria manifatturiera (31.475). Sotto la media: i servizi (29.564), il commercio (29.926), l’edilizia (27.896) e l’agricoltura (25.198 euro). Il metalmeccanico e il chimico sono settori ad alta intensità di capitale, con margini maggiori, nei quali il costo del lavoro ha un peso minore, per cui possono permettersi di seguire l’inflazione. Nei servizi, invece, si trova la parte più fragile del tessuto produttivo italiano, con bassi margini, che non riesce a compensare gli aumenti del costo del lavoro con incrementi della produttività.
Produttività, eccola la parola magica. Quante volte sentiamo che l’aumento dei salari è legato all’aumento della produttività? Il problema è che la terziarizzazione dell’economia italiana è avvenuta soprattutto con servizi poco qualificati e quindi poco pagati. Di qui la media in discesa. Mentre negli altri paesi il reddito da lavoro annuo -a parità di potere d’acquisto- è aumentato, in Italia è diminuito dell’1 per cento tra il 1990 e il 2020. E questo dato è legato alla lenta crescita della produttività italiana a partire da metà anni Novanta, che si ripercuote a sua volta sulla sua bassa.
Un fattore determinante della bassa produttività italiana è la dimensione minuscola delle nostre imprese. Che poi sono quelle che (con qualche eccezione) fanno scarsi investimenti in tecnologia e ricerca e sviluppo, sottoscrivono raramente contratti aziendali migliorativi e hanno bassi salari.
Tra una micro-impresa, con meno di dieci dipendenti, e una grande, con più di mille dipendenti, c’è una differenza di oltre diecimila euro all’anno del Ral. Inoltre, i bassi salari comprimono pure i consumi interni, determinando una crescita bassa. E anche l’Ocse sottolinea che la produttività stagnante è la principale palla al piede dell’economia italiana. E un paese che non cresce crea lavoro di minore qualità e salari più bassi. È il classico caso del cane che si morde la coda.
Caro direttore, chi scrive non ha soluzioni in tasca (né a lui, d’altronde, gli competono). Tuttavia, resta sempre convinto che farsi le domande giuste è già dare mezze risposte.
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