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il ministro Foti spiega la crisi della natalità in Commissione transizione demografica


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La situazione è preoccupante e soluzioni in tasca non ce ne sono, ma non per questo dobbiamo arrenderci. Il ministro per gli affari europei, le politiche di coesione e il PNRR Tommaso Foti stamattina in audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica ha affrontato i vari aspetti ma anche le azioni che si stanno mettendo in campo su quella che lo stesso ministro ha definito “una tendenza che si consolida nel tempo” e che riguarda l’Italia come tutta l’Europa: il forte calo della natalità.

Una tendenza che si accompagna con l’aumento della longevità, dando vita a una combinazione dagli effetti potenzialmente dirompenti sul welfare e sul “difficile equilibrio sociale, che non possiamo ignorare oggi”. Tanto più che, ha sottolineato, “l’inversione della curva demografica non si fa in un anno. Occorrono almeno 18-20 anni per poter stabilizzarla”.

Italia lontana dal ‘tasso di sostituzione’

Foti è partito da un dato inequivocabile: il tasso di sostituzione, quello che è ritenuto il minimo necessario per mantenere stabile una popolazione, pari a 2,1 figli per donna (anche se secondo alcuni studi recenti questo numero è ormai insufficiente), non è raggiunto da nessun Paese europeo. Ma l’Italia è ancora sotto la media Ue, che è di 1,46, con un tasso di natalità che nel 2023 è stato dell’1,20. “Mi rendo conto che ipotizzare di andare vicino al fattore ‘2’ diventa in questo momento un auspicio certo molto sentito, ma meno realistico, però un obiettivo di avvicinarci alla media europea dovrebbe essere quello che condividiamo penso un po’ tutti”, ha precisato il ministro.

A tal proposito Foti ha sottolineato “un altro elemento di forte preoccupazione e cioè la riduzione della quantità della popolazione in età riproduttiva”, perché “è evidente che se si riduce la base della riproduzione deve aumentare fatalmente quella che è la percentuale riproduttiva”. Un problema aggravato dalla “posticipazione dell’età in cui si inizia a avere figli: oggi la media è 32,5 anni”, e anche questa è una tendenza costante negli anni.

Tutto questo porta, ha avvisato il ministro, al progressivo calo della popolazione. Secondo i dati Istat citati da Foti, dopo “il livello record dei 60,3 milioni di abitanti del 2014” il calo “lento ma inesorabile” ha già portato “alla perdita di circa 1 milione e 900 mila abitanti”. E le prospettive non sono rosee: “lo scenario ottimistico ci dice che nel 2080 l’Italia avrà perso più di 6 milioni di abitanti”.

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Insomma, per Foti ci troviamo davanti a “una vera e propria rivoluzione”, ma “se vogliamo fare una politica, dobbiamo partire da queste non ottimistiche prospettive per poi trovare e individuare le forme che riteniamo più utili per cercare di invertire questa curva”. “Perché è dall’analisi di questi dati che poi si può ricavare anche qualche occasione utile non solo di confronto ma anche di proposte”, ha spiegato.

“Le aree interne sono ‘il’ tema politico, che finora non ha avuto risposte adeguate”

Foti ha poi portato l’attenzione sul cambio di paradigma per cui i problemi maggiori quanto alla natalità “li abbiamo nella zona centrale, dopodiché viene il Nord e il Sud, che pur avendo una media superiore all’1,20 non stacca più come in passato”.

Si apre qui un discorso su cui Foti si è soffermato approfonditamente: le aree interne, che diventano ‘il’ tema, nello specifico un tema politico. C’è infatti “una concentrazione del 48% dei comuni italiani che rappresentano il 25% della popolazione”: non si tratta quindi di una nicchia, ma qui i dati demografici sono ancora più preoccupanti e complessi: “In alcuni casi non voglio fare dell’allarmismo, ma la situazione è difficilmente rimediabile”, come nei comuni marginali e ultra marginali.

Nonostante questo, la questione “ancora oggi non sta decollando in termini di risposta concreta rispetto alle necessità delle aree interne”, basti pensare che “quattro comuni su cinque nel Sud perdono abitanti”.

Questo progressivo spopolamento, allo stesso modo del più generale calo della popolazione segnalato da Foti, non è solo un problema di numeri, ma di composizione della popolazione, andando a scomodare il rapporto tra ultrasessantacinquenni e la fascia 0-14 anni: un rapporto sbilanciato a favore dei primi. Attualmente, infatti, gli over65 anni hanno “una incidenza sul totale della popolazione italiana del 24,3% a fronte del 12,2% della fascia da 0 a 14 anni”, con “gli inevitabili riflessi anche per quanto riguarda il mondo della produzione, i costumi, la necessità o meno di abitazioni, i servizi sociali che fatalmente rischiano di cambiare e di avere un cambio di indirizzo”.

Insomma, ha evidenziato il ministro, ci avviamo, secondo le proiezioni Istat, verso “una desertificazione di alcune aree del Paese”.

Alla base ovviamente il problema dei servizi, specie in zone come le fasce montane dove non solo ci sono sempre meno abitanti, ma sempre meno giovani, perché questi cercano lavoro e servizi altrove: ad esempio “se chiudi le scuole di montagna porti psicologicamente le persone ad orientarsi di andare a vivere in altri luoghi”. Questo comporta anche che “quella catena di solidarietà familiare che una volta rappresentava una delle strutture del sistema Paese oggi si vada sfarinando”, ha precisato Foti.

Guardare anche all’Europa

Un problema reale che il ministro collega all’Europa: “Attualmente la popolazione europea rappresenta il 6% della popolazione mondiale, ma nel 2070 sarà meno del 4%”, dunque “diventa importante vedere un quadro comparato delle politiche europee per verificare non solo l’adozione delle singole norme, ma il reale impatto delle singole norme rispetto agli obiettivi”, perché legiferare non basta. Infatti, ha notato il ministro, “delle nazioni hanno sviluppato attente politiche per la famiglia, ma alle stesse non ha corrisposto quell’aumento sostanziale del livello di sostituzione generazionale che era auspicabile”. “Forse misure sbagliate, non lo so, forse anche un atteggiamento che diventa diverso da parte delle popolazioni interessate”.

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“Dobbiamo sviluppare delle politiche familiari che vengano anche intese come parte integrante delle politiche di sviluppo di un territorio perché è evidente che laddove manca la presenza si impoverisce tutto il territorio”, ha chiarito Foti.

Il Piano strategico nazionale per lo sviluppo delle aree interne

A tal proposito, e passando alle azioni messe in campo, il ministro ha fatto riferimento al Piano strategico nazionale per lo sviluppo delle aree interne “approvato all’unanimità in cabina di regia”, che parte dalla considerazione che Nord, Sud e Centro hanno gli stessi problemi e dunque che quella demografica è una questione di portata nazionale.

Uno dei punti evidenziati nell’audizione è quello delle risorse, nello specifico nella capacità italiana di utilizzarle e metterle a terra: “Rispetto alle politiche delle aree interne abbiamo una programmazione 2014-2020 che ad oggi ci dice che rispetto a 1 miliardo e 200 milioni complessivamente a disposizione siamo arrivati a una messa in moto di poco più del 50% e in una spesa che è di poco superiore a un terzo”. “E questo è un problema di difficoltà, non è di impossibilità”, legato anche alla “disponibilità di personale amministrativo degli enti che è ridotta numericamente e ancora più ridotta sotto il profilo dei profili professionali che oggi servono”, ha sottolineato Foti.

Il Piano Strategico individua alcuni ambiti di intervento: infrastrutture e servizi essenziali, tra i quali istruzione, sanità e mobilità. Oggi, ad esempio, si possono sfruttare le opportunità date dalla telemedicina e dell’assistenza a distanza, oppure dallo smart working, ma questo presuppone che ci siano i servizi e la connettività, dimostrando la connessione tra le varie problematiche e la necessità di “un piano completo e sinergico”.

Occorre poi agire sul sostegno alle imprese locali, alla formazione e l’occupazione, sul valore delle risorse naturali, delle risorse culturali locali, “perché dobbiamo anche cercare di riscoprire le particolarità, le situazioni e le traduzioni di alcuni territori, collegandoli alle nuove competenze e alla presenza nei settori emergenti”, rimanendo ben consapevoli che “non è che risolviamo il problema se recuperiamo un antico frantoio”.

Natalità e parità di genere

Questione a parte ma strettamente associata con il tema natalità è quella della parità di genere, molto presente nel Pnrr di cui è uno degli obiettivi per l’inclusione sociale. In tale ambito, si comincia dal lavoro – “pari opportunità di carriera, di competitività, di retribuzione, di flessibilità che possano poi portare la famosa conciliazione dei tempi, che bisogna cercare di calare di più nella realtà dei fatti”.

Qui Foti ha fatto riferimento a vari temi, dalla “grande rivoluzione sotto il profilo non solo culturale, ma anche di approccio al mondo del lavoro” che è una maggiore presenza femminile in ambito Stem, all’impegno di cura a carico delle donne, gravoso e non remunerato, fino a quello della rappresentanza femminile nelle posizioni apicali, sia a livello istituzionale che sociale e aziendale.

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Foti ha ricordato anche l’istituzione presso la presidenza del Consiglio dei Ministri del dipartimento per le pari opportunità e dell’osservatorio nazionale per l’integrazione delle politiche per la parità di genere, così come l’adozione di norme sui contratti pubblici per assicurare alle donne almeno il 30% di assunzioni, con lo scopo di “superare condizioni di squilibrio”.

Qualche risultato: l’obiettivo di creare 700 imprese femminili, “siamo arrivati a 925. La misura al 30 giugno 2026 è quella di almeno 2400 imprese femminili”. C’è poi il sistema di certificazione della parità di genere realizzato con Unioncamere, per incentivare le imprese ad adottare politica adeguate a ridurre il divario di genere: “Al 9 aprile 2024 vi erano 57 organismi di certificazione accreditati e ben 7960 organizzazioni certificate, a fronte di un target che era decisamente molto più basso”. Per quanto riguarda la riforma delle politiche di coesione Foti ha menzionato il bonus donne che vale per le aree ZES e poi esteso anche alle altre aree del Paese.

Fondamentali asili nido e tempo pieno

Infine, il ministro ha toccato nodi centrali in ottica natalità come il potenziamento degli asili nido e l’estensione del tempo pieno: “Vi è stato un ultimo bando a riguardo di 800 milioni da parte del Ministero: abbiamo avuto domande per circa 400 milioni che potrebbero determinare 17.734 nuovi posti di asilo nido (dati provvisori, specifica)”, con una risposta forte “anche delle zone dove eravamo più carenti, cioè quelle del sud”. “L’obiettivo al mese di giugno è di 150.480 nuovi posti di asilo nido. Abbiamo investimenti su 3627 interventi autorizzati, dei quali 3200 attivi che cubano 4,4 miliardi e 570 milioni di euro”, ha snocciolato precisando che il 25% degli interventi attivi è nell’ambito del piano asili da 735 milioni di euro finanziato con risorse statali.

Per quanto riguarda infine il piano di estensione del tempo pieno, mediamente la richiesta viene dal 45% delle famiglie con punte ben superiori “in alcune regioni specifiche che sono Lazio, Piemonte ed Emilia-Romagna”. Ad oggi l’obiettivo era di raggiungere a giugno 2026 1000 edifici con nuove mense o la riqualificazione di quelle esistenti”. “A luglio 2024, a fronte del miliardo e 74 milioni di euro che sono stati destinati, abbiamo più di 1400 interventi su tutto il territorio nazionale”.



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