Gli investimenti verdi europei, spesso promossi come strumenti finanziari a favore dell’ambiente e della transizione ecologica, si trovano al centro di una controversia crescente. Un’inchiesta congiunta condotta da Voxeurop e The Guardian ha sollevato il velo su un paradosso inquietante: più di 33 miliardi di dollari sono stati allocati da questi fondi in colossi dell’industria petrolifera e del gas. Questo nonostante l’evidente responsabilità dei combustibili fossili nella crisi climatica globale.
La verità nascosta dietro gli investimenti verdi europei
Dietro etichette accattivanti come Sustainable Global Stars o Europe Climate Pathway, si nascondono partecipazioni consistenti in compagnie come Shell, BP, ExxonMobil, Chevron e TotalEnergies. Solo queste cinque multinazionali, tra le più inquinanti del pianeta, rappresentano da sole oltre 18 miliardi di dollari degli investimenti totali scoperti. Il contrasto tra la narrazione pubblicitaria di questi fondi e la realtà dei loro portafogli lascia poco spazio ai fraintendimenti.
Le norme europee che regolano la trasparenza degli investimenti sostenibili, note come SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation), non vietano esplicitamente la presenza di azioni di aziende fossili nei fondi “green”. Ed è proprio questa ambiguità normativa che ha permesso a giganti della gestione patrimoniale come JP Morgan, BlackRock e DWS di detenere importanti quote in società legate ai combustibili fossili, pur rispettando tecnicamente le regole.
Il cuore della questione non è tanto una violazione formale, quanto un problema di etica e chiarezza verso gli investitori. Molti scelgono questi strumenti finanziari con l’intenzione di sostenere soluzioni ecologiche e contribuire, nel proprio piccolo, alla lotta contro il cambiamento climatico. Scoprire che parte dei loro soldi finanzia le stesse aziende responsabili di enormi emissioni di CO₂ è vissuto da molti come un tradimento.
Il futuro dei fondi sostenibili tra linee guida e pratiche ambigue
Secondo Giorgia Ranzato, responsabile della finanza sostenibile per Transport & Environment, “un fondo che si definisce ‘verde’ non dovrebbe in alcun modo detenere partecipazioni in aziende petrolifere. Questi investimenti sono una forma di greenwashing, un modo per apparire ecologici senza esserlo davvero”.
D’altra parte, le società di investimento si difendono sostenendo che la loro partecipazione come azionisti consente loro di esercitare pressioni dall’interno affinché le aziende cambino direzione. Ma numerose analisi dimostrano che, in realtà, nessuna delle grandi compagnie del settore petrolifero ha adottato strategie coerenti con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Anzi, diverse di loro hanno recentemente ridotto l’ambizione dei loro piani climatici.
Il problema non si ferma a un pugno di fondi; sono più di 480 le società finanziarie che, secondo l’indagine, gestiscono prodotti regolati dagli articoli 8 e 9 della SFDR contenenti azioni di imprese fossili. In molti casi, questi strumenti vengono pubblicizzati usando termini come “ESG” (ambiente, sociale, governance) o “sostenibile”, alimentando ulteriormente la confusione tra investitori meno esperti.
L’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) ha riconosciuto la necessità di fare ordine. Nell’agosto 2024 ha pubblicato nuove linee guida sull’uso dei termini legati alla sostenibilità, chiedendo maggiore coerenza tra il nome del fondo e i suoi investimenti effettivi. Le nuove regole, seppur non legalmente vincolanti, entreranno in vigore a partire dal 21 maggio 2025. A quel punto, i regolatori nazionali potranno richiedere maggiore trasparenza e sanzionare eventuali abusi.
Nel frattempo, alcuni gestori stanno già correndo ai ripari. BlackRock e JP Morgan hanno annunciato la rimozione di termini come “sustainable” ed “ESG” da alcuni dei loro fondi. Robeco, altro attore coinvolto, ha dichiarato che rimuoverà la parola “sostenibile” dal nome del proprio fondo Global Stars, pur continuando a sostenere che il portafoglio in questione ha un’impronta carbonica inferiore alla media del mercato.
Tuttavia, secondo molte associazioni ambientaliste, questi cambiamenti arrivano tardi e non bastano. Paul Schreiber, di Reclaim Finance, ha dichiarato che servono regole molto più rigide, che escludano in modo netto ogni forma di investimento in combustibili fossili da qualsiasi fondo che voglia sentirsi orgoglioso dell’etichetta “verde”.
Possiamo davvero parlare di sostenibilità quando miliardi di dollari finiscono ancora nelle mani dei grandi inquinatori? Finché non ci sarà una definizione più rigorosa e legalmente vincolante di cosa significhi “investimento sostenibile”, il rischio che gli investimenti “verdi” europei si rivelino una facciata resterà altissimo.
Elena Caccioppoli
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