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L’Ungheria è diventata la porta d’accesso delle auto elettriche cinesi in Europa


La leadership cinese nel settore delle auto elettriche è ormai un dato di fatto. Secondo l’analisi del sociologo Paolo Gerbaudo pubblicata sulla rivista specializzata Surplus, la casa automobilistica BYD ha venduto 4,3 milioni di veicoli nel 2024, con un aumento del 41% rispetto all’anno precedente. Solo nei veicoli completamente elettrici (BEV), ha quasi eguagliato Tesla: 1.790.000 veicoli per l’azienda statunitense contro 1.764.000 per la concorrente cinese. A queste cifre si affianca una crescita annua del 12% e una proiezione che indica come BYD potrebbe superare Toyota e diventare il primo costruttore automobilistico al mondo entro il prossimo decennio.

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Il successo di BYD, fondata nel 2000 a Shenzhen da Wang Chuanfu, affonda le sue radici nella capacità di concentrare in Cina tutte le principali fasi del ciclo produttivo: dalla ricerca alla produzione di batterie e semiconduttori, fino al montaggio finale. Questo modello di integrazione verticale ha consentito all’azienda di raggiungere economie di scala notevoli e livelli di efficienza produttiva difficilmente replicabili altrove.

La rapida espansione internazionale del colosso cinese non è solo una questione industriale, ma anche geopolitica. Oltre alla crescente domanda asiatica, l’Europa resta il principale obiettivo: dopo la Cina, l’Unione europea e il Regno Unito rappresentano il secondo mercato per i veicoli elettrici, con 1,5 milioni di auto immatricolate nel 2024. Tuttavia, l’accesso a questo mercato è oggi reso più complesso dai dazi imposti dall’UE: oltre ai 10% di base, BYD paga un ulteriore 17%, mentre per Geely e SAIC le aliquote salgono fino al 35%.

In risposta, BYD ha deciso di investire direttamente nella produzione europea. Il primo grande insediamento è in Ungheria, paese che riceve il 44% di tutti gli investimenti diretti cinesi nell’UE. Qui, a Szeged, entrerà in funzione nel 2025 uno stabilimento in grado di produrre fino a 200.000 auto l’anno. Un secondo impianto è in costruzione in Turchia, a Manisa, con una capacità simile, che beneficia dell’inclusione della Turchia nell’Unione doganale europea. La posizione strategica, unita alla cooperazione sino-turca nell’ambito della Belt and Road Initiative, rafforza il ruolo turco come ponte tra Pechino e il mercato europeo.

Un terzo stabilimento è allo studio, con possibili sedi in Germania o Italia. L’Italia, dove Stellantis ha ridotto la produzione, potrebbe rappresentare un’opportunità, ma le prime trattative non hanno portato risultati. Più avanzati sembrano i contatti con il marchio Chery. Intanto, BYD ha già avviato contatti con 300 fornitori italiani e ha in programma la creazione di centri di ricerca e sviluppo nel continente.

La nuova globalizzazione industriale promossa dalla Cina si basa su modelli diversi rispetto al passato: al centro vi è la stabilità, la cooperazione tra governi, la creazione di valore aggiunto locale e l’integrazione produttiva. Non mancano, tuttavia, le ombre: come documentano alcuni casi emersi in Brasile, dove BYD è accusata di eludere i sindacati locali, il modello cinese non è privo di contraddizioni.

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Secondo Gerbaudo, l’espansione di BYD offre agli Stati europei – Italia compresa – un’occasione strategica: chiedere alle imprese cinesi di condividere tecnologie e produzione con attori locali. Un passo necessario affinché gli investimenti esteri diventino leve di autonomia industriale e non strumenti di dipendenza. Al momento, però, l’Italia resta ai margini di questo riassetto geopolitico-industriale.



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