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MENO FIGLI, MENO IMPRESE/ “Economia bloccata, la UE tolga le spese per la famiglia dai vincoli di bilancio”


Trattenere i giovani e impedire loro di andare all’estero a lavorare, sfruttare il potenziale dei pensionati, ma soprattutto sostenere le famiglie, puntando sul secondo figlio, garantendo loro un finanziamento agevolato da ripagare in tempi lunghi, che possa aiutare a programmare la crescita del nucleo familiare. Il calo demografico mina alla base anche la produttività e l’economia: lo dicono alcuni dati del rapporto ISTAT 2025, che ricordano il deficit di produttività (quella industriale è calata del 4% nel 2024) e la riduzione di oltre il 10% del potere di acquisto dei salari nell’ultimo quinquennio.

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Per ripartire, propone Giancarlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, docente emerito di demografia all’Università di Milano-Bicocca, bisogna rilanciare la natalità, e, visto che si tratta di un problema europeo, si potrebbe pensare di togliere le spese per l’incremento demografico dai vincoli di bilancio. Lo si fa per le armi, lo si può fare anche per questo.



Le imprese a rischio di ricambio generazionale sono il 30,2%. Il PIL per occupato è in calo del 5,8% negli ultimi vent’anni. E il calo demografico comincia a incidere sulla vita delle imprese e il loro futuro. Quanto ci dobbiamo preoccupare?

Da un lato vanno considerati i numeri, quelli della popolazione in unità lavorativa, degli occupati, delle braccia che, in qualche modo, fanno prodotto interno lordo. Dal punto di vista della demografia, questi numeri sono calati e diminuiranno anche in prospettiva. Tradurre tutto questo in spiegazione delle dinamiche di alcuni parametri economici non è così semplice. Perché è vero, da un lato abbiamo avuto un calo demografico, dall’altro, però, stiamo assistendo a un aumento dell’occupazione: i 24 milioni e mezzo di occupati degli ultimi dati ci dicono che abbiamo raggiunto un record che ci sognavamo. Quindi la forza lavoro esiste e produce. Nel rapporto presentato dall’ISTAT sono segnalati anche altri due elementi importanti: il cambiamento dell’età media e dell’istruzione.

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Che cosa comportano?

La forza lavoro terrà ancora per un po’, ma la demografia ci dice che, fra poco, avremo sicuramente una perdita di lavoratori.

Ma ci dice anche che questi lavoratori oggi hanno spesso un’età matura: per effetto del gioco generazionale, l’età media degli addetti, dal 2011, è aumentata da 43 a 45 anni. A generazioni un tempo numerose alla nascita subentrano oggi altre più scarse da questo punto di vista: la media complessiva dell’età lavorativa, per questo, sta crescendo.

Un punto in parte negativo, anche se poi avere una forza lavoro più matura vuol dire avere soggetti con maggiore esperienza e, qualche volta, più conoscenza nello specifico. Cui corrisponde, a dire il vero, anche una minore flessibilità e una maggiore resistenza all’innovazione: chi lavora da tempo tende a dire: “Ho sempre fatto così e continuo a farlo”. Un aspetto che si riflette sulla produttività.

Quanto all’istruzione, invece, a che cambiamenti assistiamo?

C’è un cambiamento nel livello di istruzione, di formazione, di scolarità. Il rapporto ISTAT lo mette in evidenza: nelle aziende ci sono persone sempre più istruite. Teniamo presente il fatto che il sistema produttivo si modifica, e che quindi questi lavoratori si occupano di servizi di tipo avanzato, in cui viene impiegata gente che ha un livello di formazione tutto sommato alto. Avere inserito personale o avere dato vita a nuove imprese con giovani istruiti è diventato un fattore trascinante rispetto al risultato economico.

Il dato del calo demografico, però, è lì come una spada di Damocle pronta a caderci in testa. Come si può rimediare? Il governo a queste domande risponde che non ci sono soldi. Se ci fossero, come andrebbero impiegati?

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Non possiamo inventarci persone che non ci sono, ma possiamo migliorarle qualitativamente, compensando la quantità con la qualità, sviluppando i processi di formazione, orientando le scelte dei giovani magari verso una formazione più tecnica e meno umanistica e comunicativa.

Rimane però il problema del minore numero di persone a disposizione: come si può ovviare?

Possiamo evitare che i giovani che possono inserirsi nel mercato del lavoro in modo produttivo vadano a lavorare negli Stati Uniti o in Europa, nel Regno Unito o in Germania. Da questo punto di vista, c’è un salasso che indebolisce il sistema. Dall’altro lato, c’è un discorso di acquisizione della componente straniera: noi siamo interessati, per esempio, ad avere badanti, e ci serviranno sempre di più, però bisognerebbe attrarre anche personale con una formazione più alta. Il classico ingegnere indiano, per capirci, oppure, visto che è difficile farlo arrivare perché in altri Paesi gli danno di più, almeno ingegneri di altre nazionalità. Dobbiamo cercare di rimpolpare la forza lavoro con un contributo di natura più qualificata.

Se ragioniamo sul medio-lungo periodo, tuttavia, non possiamo non affrontare il tema della denatalità. Come dobbiamo agire in questa direzione per risollevare anche la nostra economia?

Bisogna valorizzare il secondo figlio, puntare sul concetto di fratello. Una volta, negli anni ’60, due nati su tre avevano già in famiglia un altro bambino; oggi, invece, siamo al 50%. Teniamo presente una cosa: l’indagine ISTAT sui giovanissimi da 11 a 19 anni ha messo in evidenza che hanno intenzione di mettere su famiglia, tanto che, dal famoso 1,18 figli per donna di oggi, si arriverebbe a 1,91.

Vuol dire che, di fatto, sarebbe possibile il ricambio generazionale: due figli per due genitori. Poi, però, i ragazzi crescono e si rendono conto che ci sono problemi da affrontare e mollano i loro progetti. Bisogna fare in modo che li mantengano, anche se non a livelli così alti. Poi ci sarebbe una terza via.

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Ci sono persone che, anche da pensionate, possono continuare a rimanere attive. Più o meno, ci sono mezzo milione di persone pensionate, fra i 50 e i 74 anni, che però sono ancora occupati, più della metà dei quali lavorano perché quello che fanno piace loro. C’è una potenzialità che non dobbiamo perdere: non dobbiamo lasciare andare via i giovani, ma neanche privarci di persone che vanno a giocare a bocce mentre potrebbero continuare a fare un mestiere.

Tornando alla denatalità, però, quale sarebbe il primo intervento da realizzare?

Penso che si debba lavorare sul secondogenito. Dobbiamo dare una mano attraverso dei prestiti, aiutare i giovani a far sì che possano sviluppare un progetto di famiglia, sostenendoli per quanto riguarda la casa, il lavoro, le forme di aiuto che possono garantire una serie di beni e servizi a cui, bene o male, oggi sono abituati. Penso a un sistema di interventi, di finanziamenti, non dico di sussidi a fondo perduto perché non ce li possiamo permettere, ma a qualche forma che spinga la gente a fare delle scelte con responsabilità e ad affrontare il futuro con tranquillità, senza l’assillo dell’indebitamento.

Ma come si fa?

Si gioca sui tempi lunghi. Oggi si va a comprare l’automobile a 150 euro al mese; stiamo andando verso un mondo in cui i grandi esborsi non si fanno più, e tutto è diluito nel tempo. Si potrebbero fornire ai giovani i mezzi per mettere su famiglia e farsi ridare i soldi con calma, gradualmente, nel tempo. Certo, c’è un costo finanziario: bisognerebbe fare i bot per la formazione delle famiglie.

Tuttavia, potrebbe essere la strada giusta. In Ungheria, per esempio, hanno avuto un recupero di natalità perché, al terzo figlio, si veniva esentati dalle tasse.

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Ci vuole un sistema pubblico che ti dia delle sicurezze, ma sicurezze vere, non un bonus adesso e poi vediamo, per aiutare le persone a programmare la loro vita in maniera più serena.

Alla fine, però, dovrebbero sempre restituire dei soldi. Un aspetto che può ostacolare il piano?

Certo, le famiglie dovranno restituire dei soldi. Glieli darei gratis, ma non ce lo possiamo permettere con 3.000 miliardi di debito pubblico. Un’altra cosa per cui bisognerebbe combattere a livello europeo è fare uscire gli interventi di natura demografica dai vincoli di bilancio. Abbiamo tolto le armi, potremmo intervenire nello stesso modo per il capitale umano: è un problema europeo, non solo nostro.

(Paolo Rossetti)

 

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