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Diversity, Equity & Inclusion? Manca una visione strategica


DE&I indietro tutta: il nuovo corso presidenziale a firma Donald Trump debutta a fine gennaio con un gesto di rottura, la rottamazione delle politiche (e dei valori evidentemente) per la Diversity, Equity & Inclusion. Ma cancellare e ripartire da zero, illudendosi che niente sia cambiato è una forzatura o risponde a una situazione che forse non era così rosea come ci è stata presentata? Le politiche di inclusione finora implementate hanno davvero portato a quella crescita tanto sbandierata da dati e statistiche? E ancora, l’onda d’urto del pugno di ferro trumpiano arriverà anche da noi, visto che il mercato globalizzato ha reso penetrabili i confini economici? Ne abbiamo parlato con la professoressa Simona Cuomo, Associate Professor of Practice di Leadership, Organization & Human Resources presso Sda Bocconi School of Management, nonché coordinatrice dell’Osservatorio Diversity & Inclusion & Smart Working nella medesima Università.

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«Sicuramente la situazione non era rosea nemmeno prima, ma questa nuova iniziativa non aiuta. Inclusione significa innanzitutto modelli di leadership in grado di creare un clima organizzativo in cui le persone sentano di potersi esprimere al di là della propria identità sociale», spiega. «Richiede un nuovo approccio alla questione delle “risorse umane”, cioè delle persone, mosso dalla consapevolezza che è in corso un cambiamento sociodemografico impattante sul mondo del lavoro. Il vero problema è che il tema non è stato mai posto a livello strategico, ma solo come strumento tattico, e quindi non ha portato a risultati concreti. Rispetto alla supposta crescita economica, i dati finora pubblicati sono ricavati da studi di correlazione, ma incrociare un corso di formazione sulle donne o l’aumento della presenza di donne con i risultati di un’azienda non è per niente semplice o lineare».

Il crepuscolo della DE&I?

Giù le mani dai diritti

In Europa, come si accennava, le politiche DE&I fanno parte del Dna stesso dell’Istituzione UE, e nel nostro Paese, entrano a pieno titolo nel Pnrr, all’interno della Missione 5, che prevede tra l’altro anche la definizione di un Sistema nazionale di certificazione della parità di genere, rilasciato dal dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio. Tuttavia, precisa Simona Cuomo, «in Italia esistono anche altre problematiche che richiederebbero politiche ad hoc, una su tutte l’invecchiamento, come dimostrano gli ultimi dati rilasciati da Istat (370 mila nuove nascite nel 2024, il dato più basso di sempre, e un’aspettativa di vita media che aumenta di 5 mesi, pari a 82,3 anni, ndr). E anche rispetto alla parità di genere, le policy implementate in modo organico dalle imprese sono poche. Esistono aziende che si sono impegnate con serietà, ma è mancata una visione strategica, di lungo periodo. Si è lavorato su progetti che dovevano richiamare l’attenzione immediata, a effetto “wow”, invece che su iniziative che aiutassero le persone a esprimere il proprio potenziale. In termini di risultati, con quel poco che è stato fatto è assurdo pensare di poter incidere sul valore economico dell’azienda. Al di là di grandi proclami, credo che in generale si sia perso il senso vero della DE&I, che è innanzitutto un nuovo modello di HRM, ovvero di gestione e sviluppo delle persone in accordo alle nuove identità e ai nuovi bisogni e spinte motivazionali. Non basta organizzare un workshop dedicato alle donne in azienda per sostenere di aver messo in atto una politica attiva».

Causa giusta, motivi sbagliati

In effetti, la riflessione successiva al diktat presidenziale va proprio a soppesare quanto l’adesione di tante aziende e multinazionali ai valori DE&I fosse in realtà rainbowashing, cioè di facciata, e rispondesse a esigenze legate alla fenomenologia del marketing, al posizionamento nel proprio settore di riferimento. Un sondaggio di Accenture indica come il 45% dei consumatori ritenga che molte delle campagne DE&I siano tuttora solo di facciata, e secondo Bloomberg alcuni leader d’azienda ritenevano che l’adesione a politiche DE&I ne snaturassero addirittura l’identità. Harley Davidson, Starbucks, Ford, sono state tra le grandi aziende a scendere dal carro DEI, spinte dal vento anti-woke che spira in America, amplificato ad arte da Elon Musk su X.

Ma il problema era a monte, spiega la nostro interlocutrice, perché «l’adesione ai temi DE&I è avvenuta sull’onda del momento, di una moda manageriale, in grado di aggregare le imprese, stimolare la competizione e l’imitazione pedissequa. Ed è sbagliatissimo, perché ogni azienda si rapporta diversamente con le proprie persone, i progetti vanno costruiti sulla base di esigenze reali e specifiche. I manager devono imparare ad ascoltare i lavoratori, altrimenti gli investimenti (i pochi che vengono stanziati su questo tema) finiscono su progetti che non rispondono ai bisogni delle persone e quindi non servono e, non producendo i risultati attesi, sminuiscono nel lungo periodo i valori della DE&I che li sottendono».

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L’ostilità rispetto ai temi dell’inclusione nasce dal fatto che sono minati dei privilegi non percepiti come tali

E rispetto alle paradossali accuse di “discriminazione al contrario” (cioè, dei maschi bianchi etero) indotta dalle politiche inclusive, il problema della progettualità strategica torna a galla: «Il potere in realtà è sempre rimasto in mano agli uomini. Il sociologo Michael Kimmel, studiando le politiche di genere ma prendendo come target d’indagine gli uomini anziché le donne, aveva sostenuto che il privilegio è invisibile a chi lo possiede, sottolineando come l’uomo medio al potere non accorgendosi del proprio privilegio, creda di gestire il proprio ruolo con equità non accorgendosi nei fatti di escludere dal sistema di reward le minoranze organizzative. L’ostilità rispetto ai temi dell’inclusione nasce dal fatto che sono minati dei privilegi non percepiti come tali. Anche in relazione alle politiche di smart working, c’è in corso un ripensamento da parte di molte aziende che stanno richiamando le persone in ufficio. Lo smart working poteva essere uno stimolo a organizzare il lavoro in maniera diversa a fronte dei cambiamenti tecnologici, ma ecco che, se viene concesso solo alle persone fragili, e quindi non in funzione di una strategia aziendale generale, si apre uno scenario effettivamente discriminatorio nei confronti degli altri dipendenti».

Tutto cambia, affinché nulla cambi

Non è nemmeno un problema di competenze, della presenza, cioè di personale in grado di valutare e gestire le politiche DE&I. A partire dagli anni Ottanta, quando se ne iniziava a parlare, il tema dell’inclusione ha prodotto una sempre maggior specializzazione, sfociata nel ruolo del DE&I Manager. Ma salendo su per la scala gerarchica certe istanze sembrano perdersi per strada. «Non sempre c’è dietro un consiglio d’amministrazione che prende in carico a livello strategico il tema. Su questo argomento ho concluso nel 2023 una ricerca che ha evidenziato come le politiche attive di genere nei cda fossero tutt’altro che accettate, in parte persino dalle donne (Legge Golfo -Mosca, 2011, che introduce le quote rosa nei board per almeno il 30% del totale, ndr). Il tema della people strategy semplicemente non era nell’agenda dei board. Per assicurare uno sviluppo devo allineare le competenze delle mie persone ai miei piani industriali, devo cioè gestire le persone perché sviluppino le proprie capacità, il proprio talento, costruendo condizioni organizzative e di clima finalizzate al benessere, alla sicurezza materiale e psicologica, alla giustizia e all’equità di trattamento. Questo non succede perché esistono ancora stereotipi culturali che impediscono alle persone di esprimersi. Continua a sfuggire l’importanza strategica per l’impresa, soprattutto in termini di sostenibilità nel tempo».

La situazione reale della nostra imprenditoria non era dunque tale da subire grandi scossoni, a prescindere dal bando di Washington sulla DE&I, e anche le multinazionali americane che operano in Europa possono prendersela comoda. «Nel 2000, quando abbiamo iniziato a parlare di questo tema, ci siamo subito accorti che in realtà quello che veniva dagli Usa non era adatto alla nostra cultura. Le politiche DE&I devono essere tagliate su misura di una cultura organizzativa che opera in uno specifico contesto. Tante imprese multinazionali in Italia chiedevano alle loro aziende locali di implementare misure che imponevano dall’America, ma che qui non erano praticabili a meno di mettere a ferro e fuoco l’organizzazione. Inclusione e integrazione non si calano dall’alto, sono frutto di un processo. E non bisogna dimenticare che sono anche i valori fondanti della democrazia».


Questa intervista è tratta dallo speciale Diversity, Equity & Inclusion di Business People di maggio 2025, scarica il numero o abbonati qui



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