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Pochi nati e giovani in fuga, il Sud delle aree interne arranca dietro il futuro


Per la prima volta nella storia del Paese gli ultraottantenni hanno superato i giovani al di sotto dei dieci anni. Si tratta di una realtà che impatta su tutto il territorio nazionale ma che ha uno speciale significato per il Sud che, un tempo non lontano, era considerata la nursery d’Italia. Qui alla natalità che scende si aggiunge l’effetto dei giovani che se ne vanno. Le aree interne, in particolare, hanno perso quasi mezzo milione di residenti in dieci anni. E le proiezioni al 2040 indicano – solo per la Puglia – una riduzione del 35% tra gli under 35 residenti nelle zone più fragili.

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Questi dati impattano sulle strategie di crescita e di sviluppo del Mezzogiorno, in un momento nel quale sarebbe fondamentale non perdere l’abbrivio di una crescita per certi versi insperata. La transizione digitale, in particolare, potrebbe trasformarsi in un’elegante cornice attorno a un quadro vuoto. Perché nessuna rivoluzione tecnologica può avvenire senza una comunità in grado di innescarla. La digitalizzazione non è un destino lineare, automatico e naturalmente inclusivo. Ed il rischio, tutt’altro che teorico, è quello di una trasformazione a doppia velocità: rapida nelle grandi città, incerta e discontinua nei territori che più avrebbero bisogno di rilancio.

È questo un rischio da bene ponderare, perché i fondi europei della Coesione e il Pnrr costituiscono uno dei pochi margini di manovra concreti su cui il Governo può contare per colmare vecchi e nuovi divari territoriali.

Il Pnrr, inoltre, ha destinato al digitale nel Meridione 5,6 miliardi di euro, pari al 41% del totale nazionale. E nuove risorse potrebbero arrivare dal Piano strategico per le aree interne. Ce ne è abbastanza, dunque, per affermare che non ci si trova di fronte a tecnicismi contabili, bensì a una sfida politica. Perché portare la banda ultralarga in un comune che ha perso la scuola e i suoi insediamenti produttivi è come installare un router su una casa senza tetto: il segnale arriva, ma non per questo la qualità della vita migliora.

Le idee, d’altro canto, non mancano. Secondo IFEL-Sole 24 Ore, quasi il 40% dei progetti digitali in questi anni è nato nei piccoli Comuni. Eppure, in quelle stesse aree è giunto solo il 15,5% delle risorse. I progetti, infatti, si presentano spesso spezzettati, frenati da carenze strutturali e da competenze amministrative insufficienti. Per questo, c’è bisogno, innanzitutto di una visione che quei progetti li tenga insieme e di un paradigma attraverso il quale li si possa concretamente declinare.

Visto che le risorse non mancano, quel che urge è un nuovo patto tra Stato, territori e imprese, da stringere attraverso partenariati pubblico-privati fondati sulla responsabilità condivisa tra istituzioni e aziende per sviluppare progettualità, in particolare negli ambiti dell’energia, della logistica, dell’agroalimentare e del turismo.

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E, a valle di tutto ciò, per incrementare la cultura digitale diffusa e sviluppare progetti di formazione (o ri-formazione) al fine di qualificare e trattenere le competenze.

C’è una ragione etica che spinge lungo questo percorso. Nessuna innovazione può, infatti, considerarsi giusta se lascia indietro chi ha più bisogno di essere raggiunto. C’è, però, anche un’altra ragione di natura politica. Il Mezzogiorno non può pensare di risolvere la sua «questione» senza porsi l’obiettivo di un modello di sviluppo sociale che tenga conto delle esigenze di tutti i suoi territori.

Chi ha pagato per i problemi derivanti da uno sviluppo duale, non può consentire a cuor leggero che le stesse difficoltà si presentino all’interno dei propri confini. Che si crei, cioè, una nuova «questione» all’interno di quella storica.



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