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Legge sulla partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese: un’occasione mancata


Nei giorni scorsi anche il Senato, dopo la Camera in febbraio, ha approvato la legge sulla partecipazione dei lavoratori alla vita e alla gestione delle imprese destinata ad attuare l’articolo 46 della Costituzione che recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Nata da una meritoria campagna popolare della Cisl che ha raccolto quasi 400 mila firme, la proposta è stata accolta e storpiata dal governo e votata dai partiti di maggioranza di centrodestra assieme a Italia Viva, mentre il Pd si è astenuto e il Movimento cinque stelle ha votato contro. Divisi i sindacati. Per la Cisl si tratta ovviamente di “un passaggio storico”, mentre per Cgil e Uil il provvedimento mina il sistema delle relazioni industriali e il contenuto della partecipazione dei lavoratori nelle imprese sarebbe stato svuotato in parlamento, come desiderava la Confindustria.

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Una legge con troppi limiti

La legge rappresenta una novità nel quadro legislativo che disciplina i rapporti tra lavoro e imprese, ma l’iniziativa della Cisl, che storicamente ha sempre puntato su questo tema, meritava di chiudersi con un risultato più alto, se solo ci fosse stata la volontà politica di dotare il Paese di un sistema efficace, inclusivo ed equo di partecipazione responsabile dei lavoratori alla vita delle imprese. Invece siamo alle solite: annunci e propaganda, polemiche e scarsi progressi.

Da destra qualche nostalgico delle corporazioni comunica che con questa legge “è finalmente finita la lotta di classe, imprese e lavoratori collaboreranno per il successo di tutti”, da sinistra si critica la legge perché non rappresenta la svolta, l’apertura immaginata dalla Costituzione. Nella realtà succederà poco o niente perché la legge definisce una cornice, dentro la quale i lavoratori possono diventare persino azionisti e incassare dividendi (però con dei limiti precisi, per carità), ma nella sostanza la presenza eventuale dei lavoratori nei consigli di sorveglianza o di amministrazione delle aziende sarà concordata, se lo sarà, nei contratti nazionali di lavoro delle categorie e, in ogni caso, avrà un’incidenza modesta.

Non c’è nulla di automatico e obbligatorio come dovrebbe prevedere la “forza” della legge, mentre prevalgono gli strumenti facoltativi, lasciati alla discrezionalità e alla buona volontà delle aziende e dunque assai aleatori. Se le imprese e i sindacati si metteranno d’accordo qualche rappresentante dei lavoratori potrà entrare nei board, dopo un’accurata selezione e apposito corso di formazione. Sembra molto lontana l’idea di una presenza incisiva del lavoro nella conduzione delle imprese.

La Germania è lontana

Siamo davanti a un’occasione mancata. Se qualcuno s’illudeva che in Italia si potesse sperimentare qualche forma di cogestione o codeterminazione alla tedesca, è meglio che si desti dal sogno. Un modello stile “Mitbestimmung”, che dagli anni Cinquanta ha garantito alla Germania di diventare la maggior potenza economica d’Europa nel rispetto del lavoro, della collettività, degli interessi delle imprese, non fa per noi. Il legislatore non è pronto, non vuole, e probabilmente non lo sono nemmeno i corpi intermedi di rappresentanza sociale. Gli interessi che contano guardano altrove.

Eppure, dopo avere vissuto nel nuovo millennio la più lunga recessione del dopoguerra e il tragico biennio della pandemia con le emergenze economiche sanitarie umanitarie che conosciamo, una riforma più profonda, propositiva, aperta del nostro sistema, delle relazioni tra imprese e lavoro sarebbe necessaria e auspicabile. Ma l’impegno a definire un paradigma di sviluppo più equo e armonico, su cui molti soggetti avevano giurato durante la stagione del Covid, è presto svanito e oggi la realtà è vecchia e deludente.

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La consultazione è diversa dalla gestione

Una nuova legge, comunque, c’è e da qui si deve partire. Il testo approvato dalle Camere punta a disciplinare e favorire forme di partecipazione che vanno dalla gestione economica e finanziaria alla consultazione delle scelte aziendali con l’obiettivo di armonizzare gli interessi dei lavoratori con quelli delle imprese. A ben vedere la parola chiave è “consultazione”, che non costa niente e fa fare bella figura. I lavoratori saranno consultati, in qualche modo, per contare quasi nulla. Il coinvolgimento dei lavoratori non avverrà in modo automatico, ma sarà previsto e regolato da contratti collettivi che dovranno stabilire le regole, le modalità di attuazione e i meccanismi di selezione dei rappresentanti dei lavoratori.

La nuova legge, in particolare, prevede la possibilità di includere i rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza, nei consigli di amministrazione e in altre posizioni per garantire una visione condivisa degli obiettivi aziendali. Per la loro possibile partecipazione economica e finanziaria sono ipotizzati incentivi legati alla distribuzione degli utili aziendali ai dipendenti e piani di azionariato che permetteranno ai lavoratori di acquisire azioni aziendali, anche in sostituzione di premi di risultato. Nelle imprese che adottano un sistema di governance dualistico, gli statuti aziendali si apriranno alla presenza dei lavoratori al consiglio di sorveglianza, che vigila sulle decisioni del consiglio di gestione dove siedono i manager. I sindacati più rappresentativi dovranno definire le modalità di selezione e i requisiti per l’accesso al consiglio di sorveglianza prevedendo procedure trasparenti. Nelle aziende che non adottano il modello dualistico, gli statuti possono consentire la partecipazione dei lavoratori al consiglio di amministrazione e al comitato di controllo sulla gestione.

Burocrazia e Cnel, deludente conclusione

Non possono mancare, infine, due note classiche, burocratiche, tipiche della legislazione del lavoro italiana. Saranno create commissioni paritetiche per valutare e favorire la partecipazione dei lavoratori nei processi aziendali, con l’obiettivo di migliorare la gestione dell’impresa e favorire l’innovazione relativa a prodotti, processi produttivi, servizi e organizzazione del lavoro. Viene poi istituita una Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori col compito di monitorare e supervisionare le modalità. La Commissione avrà anche il compito di pronunciarsi su controversie relative alle modalità di applicazione delle leggi sulla partecipazione, proponendo misure correttive in caso di violazioni delle norme. Ogni due anni la Commissione dovrà presentare al Cnel, oggi guidato dal prof. Renato Brunetta che voleva abolirlo quand’era ministro, una relazione sullo stato di attuazione della legge. Poteva andare molto meglio.



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