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La cyberdifesa Pmi passa dall’open source: il caso RansomFeed


Con quasi il 39% delle piccole e medie imprese italiane che ha subito almeno un attacco informatico, si capisce bene come la cyber difesa delle PMI sia ormai una priorità imprescindibile.

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In un contesto in cui le risorse sono limitate ma le minacce crescenti, soluzioni collaborative come RansomFeed stanno ridefinendo l’approccio alla sicurezza informatica per le realtà più vulnerabili del tessuto economico italiano.

Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

La minaccia crescente per le Pmi nel settore alimentare

Negli ultimi giorni, Marks & Spencer, storico colosso britannico della grande distribuzione, è finito sotto i riflettori a causa di un attacco ransomware che ha bloccato i servizi online dell’azienda, dimostrando ancora una volta quanto anche i giganti del settore siano vulnerabili.

Il caso M&S non è isolato: secondo l’ultimo report Kaspersky MDR 2024, il settore alimentare ha registrato un incremento significativo di incidenti ad alta gravità, con attacchi mirati (APT) rilevati nel 75% delle organizzazioni monitorate e violazioni delle policy interne in oltre un quarto dei casi.

Anche in Italia, episodi simili hanno coinvolto realtà come Conad ed Esselunga, prese di mira da ransomware e costrette a rafforzare le proprie difese digitali. Se questi eventi colpiscono l’immaginario collettivo perché riguardano brand noti, un altro rischio corre sottotraccia: sono infatti le piccole e medie imprese del settore alimentare, spesso meno strutturate, a essere sempre più esposte, bersaglio di attacchi che sfruttano vulnerabilità comuni e una minore capacità di risposta.

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Cyberdifesa Pmi: un’emergenza nazionale

Nel 2024, secondo i dati più recenti da Clusit, il cyberspazio è stato teatro di oltre 3.500 attacchi informatici gravi nel mondo, un record assoluto. E l’Italia, nonostante rappresenti meno dell’1% della popolazione globale, è finita nel mirino per il 10% di questi. In particolare, quasi il 39% delle PMI italiane ha ammesso di aver subito almeno un attacco informatico. In altre parole: se sei una piccola o media impresa italiana, le probabilità di essere colpito da un cybercriminale non sono più ipotetiche. Sono statisticamente rilevanti.

Open source come leva di difesa digitale

Ma cosa può fare un’impresa che non ha né il budget di una multinazionale, né un team IT interno dedicato? Qui entra in scena una risorsa potente, economica, ma ancora troppo poco valorizzata: l’open source.

Spesso si immagina la cybersecurity come un prodotto da acquistare: una fortezza digitale che protegge da ogni pericolo. Ma in realtà, è più simile a un cantiere in evoluzione continua. E proprio come un artigiano ha bisogno degli strumenti giusti, le imprese hanno bisogno di strumenti cyber che siano trasparenti, adattabili e sostenibili.

Il software open source risponde a queste esigenze.

Piattaforme come Wazuh, che consente il monitoraggio in tempo reale della sicurezza, o OpenCTI che fornisce intelligence sulle minacce informatiche, sono gratuite e personalizzabili. Significa poter controllare direttamente cosa succede nei propri sistemi, senza affidarsi a “scatole nere” costose e incomprensibili. Uno dei vantaggi fondamentali dell’open source è proprio questo: la visibilità. Con il codice aperto, puoi sapere esattamente come funziona la tua difesa. Puoi adattarla, migliorarla, o persino condividerla con altri.

È come passare da comprare un’auto con cofano sigillato a una che puoi riparare, modificare e migliorare.

I limiti dell’open source senza consapevolezza

Spesso l’open source viene guardato con sospetto: se è gratuito, sarà anche sicuro? La realtà è più complessa. Il Rapporto Clusit 2025 ci dice che il 78% degli attacchi in Italia ha come movente il cybercrime, e la maggior parte di questi sfrutta vulnerabilità banali: software non aggiornati, configurazioni errate, mancanza di visibilità. Nessuna tecnologia può aiutare se non è gestita con cura. E l’open source non fa eccezione: è potente, ma richiede competenze e attenzione.

Per questo, la chiave non è scegliere tra gratuito e costoso, ma tra passivo e consapevole. Molte PMI investono in software di difesa sofisticati, ma non hanno personale formato per usarli. Il risultato? Sistemi costosi, ma pieni di falle.

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Cyberdifesa Pmi consapevole contro soluzioni passive

Una soluzione concreta? Il progetto Made in Italy CERT-Ransomfeed, un’iniziativa che punta a trasformarsi in una sorta di ISAC (Information Sharing and Analysis Center) per il tessuto delle PMI del nostro Paese. In pratica: un centro che raccoglie, analizza e redistribuisce informazioni su minacce informatiche, basandosi su indicatori di compromissione (IOC) provenienti direttamente dalle PMI aderenti. Questo significa che, se un’impresa subisce un attacco ransomware o individua un comportamento sospetto nei suoi sistemi, può inviare l’informazione al CERT-Ransomfeed, che la confronta con altre fonti, la valida e la rilancia a tutta la rete.

Più imprese partecipano, più il sistema diventa intelligente, aggiornato e tempestivo. CERT-Ransomfeed mira anche a fungere da collettore operativo, attraverso un SIEM centralizzato che riceve log, segnali e alert da più aziende e invia indietro correlazioni e analisi già strutturate. È come se ogni impresa avesse accesso a un piccolo centro di comando digitale, senza doverne sostenere da sola i costi.

I vantaggi di una cyberdifesa Pmi collaborativa

Questo approccio collettivo ha un vantaggio immenso: la velocità di reazione. Quando emerge una nuova minaccia, le comunità open source sono spesso le prime a reagire. E le imprese che adottano questi strumenti possono aggiornarsi in tempo reale, senza aspettare la prossima release di una software house.

Tuttavia, è importante chiarire un punto cruciale: usare strumenti open source, come anche aderire a CERT-Ransomfeed non significa improvvisarsi esperti o non dover più gestire la propria cybersecurity. Prendiamo un SIEM open source come Wazuh. È gratuito, potente, e consente di raccogliere eventi di sistema, monitorare i log, generare alert su comportamenti anomali. Ma poi? Serve qualcuno che quegli alert li sappia leggere, interpretare e collegare alla threat intelligence disponibile.

Facciamo un esempio concreto. Un alert segnala che un account utente ha effettuato l’accesso da un indirizzo IP russo alle 3 di notte. È un falso positivo? È un attacco in corso? Per capirlo, il team deve confrontare l’IP con le blacklist e le fonti CTI (Cyber Threat Intelligence), correlare l’evento con altri segnali, decidere cosa fare: isolare la macchina, notificare al CERT, rafforzare i controlli.

Cultura e persone al centro della cyber difesa delle Pmi

Tutto questo richiede tempo e competenze, ma offre un vantaggio fondamentale: invece di affidarsi ciecamente a soluzioni pronte all’uso, spesso opache nei costi e difficili da adattare, si investe nella crescita di una difesa che evolve insieme all’organizzazione. Il vero punto di forza? Le persone. Una tecnologia si può dismettere con un clic. Una cultura digitale, invece, si radica, si adatta e moltiplica il valore dell’intera infrastruttura. In questo senso, il costo non è più una tassa ricorrente, ma un investimento scalabile e consapevole in capitale umano e resilienza digitale.

E qui torna l’idea iniziale: l’open source non è solo un’opportunità tecnologica, ma un catalizzatore per la consapevolezza e la collaborazione. Le imprese che abbracciano questo modello non si limitano a proteggersi. Iniziano a pensare come ecosistemi, dove la sicurezza si rafforza attraverso lo sharing di intelligence e la presenza di professionisti affidabili.

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