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Luci e ombre del Jobs act


Inutile girarci attorno. Tre dei quattro quesiti referendari sul lavoro, sui quali saremo chiamati ad esprimerci il prossimo 8 e 9 giugno, mettono in questione alcune disposizioni del Jobs act, tra cui: abrogazione del contratto a tutele crescenti e ripristino della possibilità di reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente nelle imprese con più di 15 dipendenti; eliminazione del tetto massimo di mensilità dell’indennità per licenziamenti illegittimi e via libera per il giudice di determinare il giusto importo di risarcimento, a seconda delle singole specifiche situazioni; abrogazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine e obbligo nel contratto di specificarne le causali (leggi qui gli altri articoli sui referendum)

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Luci e ombre del Jobs act

È necessario fare una premessa. Il Jobs act ha ormai undici anni e le esigenze del mercato del lavoro sono molto cambiate, insieme alle dinamiche su scala globale. La legge ha tentato di flessibilizzare il mercato del lavoro, tenendo insieme tutele e sviluppo economico, cercando al contempo di rendere sicuri i risarcimenti e arginare i finti “co.co.co.”. Tuttavia, con il senno del poi, si può sostenere che abbia portato a un aumento dei contratti a tempo determinato; complice, sicuramente, la mancata previsione e applicazione di alcune misure come la tassazione di alcune fattispecie “a tempo”. Pertanto, è opportuno porsi alcune domande circa il reale impatto del Jobs act sul mercato del lavoro italiano. 

Contratto a tutele crescenti, il Jobs act ha funzionato?

L’obiettivo dichiarato della riforma del 2015 era una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro e la crescita dell’occupazione. Però, due misure sono state molto discusse: la nuova disciplina del contratto “a tutele crescenti” per i casi di licenziamento illegittimo dei lavoratori assunti a tempo indeterminato; e la forte decontribuzione per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti.

Nel primo caso – oggetto del primo e del secondo dei quesiti referendari – l’azienda con più di 15 dipendenti, che licenzia illegittimamente un lavoratore, non è più tenuta a reintegrarlo (come previsto in precedenza dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), a meno che il licenziamento non sia discriminatorio. Mentre, per le aziende con meno di 16 dipendenti, al lavoratore ingiustamente licenziato, viene riconosciuto un indennizzo economico di massimo 6 mensilità, basato sull’anzianità di servizio.

Nel secondo intervento, c’era uno sgravio fino a 8mila euro sui contributi per ogni nuovo contratto a tempo indeterminato, valido per tre anni, misura che poi nel 2016 è stata ridotta, portando il limite a circa 3mila euro per due anni. Ancora, la legge ha introdotto i cosiddetti “voucher” (buoni lavoro per la retribuzione), creato la Naspi – Nuova Assicurazione sociale per l’impiego – indennità mensile di disoccupazione per i lavoratori subordinati che hanno perso involontariamente l’occupazione e l’aumento delle proroghe dei contratti a tempo determinato da 12 a 36 mesi rispetto a quanto previsto dalla legge “Fornero”. 

L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori

In sostanza, la vera novità del provvedimento è consistita nell’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, rendendo così il reintegro del lavoratore licenziato non più la regola, ma l’eccezione. In luogo del reintegro, il datore di lavoro è tenuto a risarcire un indennizzo economico «certo e crescente» commisurato in base all’anzianità di servizio e che può valere un minimo di 6 mensilità fino a un massimo di 36. 

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Oggi, a più di dieci anni dalla riforma, Il dato Istat più rilevante è che negli anni 2022-2023 sono cessati rispettivamente 1,89 milioni e 1,80 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato, in prevalenza non per il raggiungimento dell’età pensionabile. Al contempo, sono aumentate le cessazioni di lavoro per intermittenti e stagionali. Numeri alla mano, sono fortemente diminuiti i licenziamenti delle persone con il posto fisso (352.000), mentre un terzo degli occupati italiani lavora a termine e part-time. Tra il 2004 e il 2024 sono aumentati del 60% i part-time stabili, del 32% quelli a tempo determinato e tempo pieno, del 95% i part-time non stabili. Risulta evidente che la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in Italia.

Contratti a termine senza causale, com’e’ andata?

Secondo il Decreto Poletti, che ha liberalizzato i contratti a termine fino a un limite di 3 anni e del 20% della forza lavoro aziendale – eliminando l’obbligo di subordinarli a una motivazione esplicita o a una causalità che rimanesse a segnalare l’eccezionalità di assunzioni temporanee – l’imprenditore che optava per un’assunzione a tempo non doveva più spiegare il perché non facesse un’assunzione stabile.

La radicalizzazione del precariato, nel mondo, già aveva allestito in quegli anni un suo personale impero assumendo i tratti della “uberizzazione” (in riferimento alle politiche aziendali del colosso Uber) e in Italia di “riderizzazione”. Finché, poi, è arrivato il riconoscimento della disciplina del lavoro subordinato per i lavoratori della delivery.

voucher, introdotti per facilitare il ricorso a prestazioni a ore sono stati aboliti. Mentre il job-on-call (lavoro a chiamata) consiste anche di situazioni in cui l’impiego si riduce a una sola chiamata al mese, finendo per gonfiare le statistiche ufficiali degli occupati.

Il contratto a somministrazione, invece, ha avuto una notevole progressione, in particolar modo subito prima del Covid. I somministrati (per lo più donne, over 50, giovani disoccupati, categorie svantaggiate), a tempo indeterminato e no, dipendenti di agenzie per il lavoro (Apl), sono andati in “prestito” condiviso in piccole, grandi e medie imprese, incluse alle industrie chimiche e metalmeccaniche. Il ricorso crescente ai lavoratori in somministrazione è dovuto alla circostanza che i loro costi non figurano nei bilanci dell’azienda come costo del lavoro, ma alla voce “servizi”, e ciò fa lustro nel gioco finanziario e delle acquisizioni basato sulle trimestrali di cassa. 

Luci e ombre del Jobs act. Qual è stato l’effetto? 

Un abbassamento della produttività del lavoro di pari passo con la trentennale stasi salariale. É stata proprio la grande diffusione di contratti a termine e dei part-time involontari, ad aver esercitato un effetto domino dirompente sui salari, già poco competitivi nel contesto europeo. Infatti, il Cnel stima che i salari italiani sono cresciuti solo dell’1% dal 1991 a oggi, contro una media Ocse del 32,55%. L’ultimo rapporto Istat certifica che nel 2024 i lavoratori a termine sono stati un milione in più rispetto a 20 anni fa. Mentre il part-time è andato sempre più aumentando. Insomma, è innegabile che la mancata chiarezza che ha accompagnato l’aumento dei contratti a termine ha creato situazioni di disagio nelle famiglie.

*la seconda parte dell’articolo sui quesiti referendari riguardanti il lavoro, sarà pubblicata il 3 giugno

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