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Dove ci porta il referendum sul Jobs act


I tre quesiti sul lavoro partono dal presupposto che il Jobs act abbia abbattuto le tutele dei lavoratori. I dati dicono però che non è così. Precarietà e una più precisa regolamentazione dei rapporti di lavoro sono temi da affrontare, ma in altro modo.

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Prima del Jobs act

Il primo quesito referendario, relativo al ripristino dell’art. 18, propone un parziale ritorno, per i lavoratori delle imprese con più di 15 dipendenti, alla “tutela reale” (reintegra sul posto di lavoro), come modificata da leggi successive (Monti-Fornero del 2012) e da interventi della Corte costituzionale.

Data l’aleatorietà del costo effettivo del licenziamento (se illegittimo), la normativa pre-Jobs act aveva un ben noto e riconosciuto effetto deterrente: che però si riversava, oltre che sui licenziamenti, anche sulle assunzioni a tempo indeterminato e sui processi di crescita delle imprese, trattenute sulla soglia dei 15 dipendenti.

La convinzione sottesa alle esigenze di riforma affermatesi nel 2015, a seguito di lunghi dibattiti sullo stato del mercato del lavoro italiano, era che la deterrenza funzionava troppo, proteggendo certamente i lavoratori una volta assunti ma, prima, scoraggiandone l’assunzione a tempo indeterminato; inoltre segmentava il mercato del lavoro dividendo nettamente insider (lavoratori ben inseriti e tutelati) e outsider (lavoratori scarsamente tutelati). Per ridurre questi effetti negativi era stata avanzata la proposta del “contratto a tutele crescenti” che perseguiva diverse finalità: semplificare (“Un nuovo contratto per tutti” scrivevano Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel 2008), incentivare le imprese ad assumere, favorire le assunzioni a tempo indeterminato, liberandole – anche prendendo esempio da altri paesi europei – dall’incertezza sui costi di licenziamento (vedi Pietro Ichino, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, 2011). In sostanza, meno deterrenza e più prevedibilità avrebbero dovuto massimizzare gli effetti positivi per tutti, imprese e lavoratori.

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La proposta si trasforma nel 2015 in dettato legislativo. Le aspettative erano chiare: incremento delle assunzioni a tempo indeterminato e crescita dimensionale delle imprese, scontando il prezzo di un possibile incremento dei licenziamenti per il venir meno dell’effetto deterrenza. Decisivo era che il saldo occupazionale fosse positivo e trainato dall’incremento dello stock di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Cosa è successo alle assunzioni

Il contratto a tutele crescenti diventa operativo il 7 marzo 2015, limitatamente ai dipendenti assunti dopo quella data da imprese con più di 15 dipendenti. E le assunzioni a tempo indeterminato esplodono: a fine 2015 sfioreranno i 2 milioni, record tuttora imbattuto, probabilmente imbattibile (i dati citati, salvo diversa indicazione, si riferiscono al settore privato extra-agricolo e sono ricavati dai Rapporti annuali Inps e dall’Osservatorio mercato del lavoro – ex Osservatorio precariato). Si aggiungono poi oltre mezzo milione di trasformazioni da tempo determinato con un saldo complessivo (= incremento dei posti di lavoro a tempo indeterminato) di quasi 900mila unità, anch’esso un valore mai più visto. Merito del contratto a tutele crescenti e del superamento dell’articolo 18?

Non solo e non tanto. Contestualmente, con la legge di stabilità 2015 (legge 190 del 23 dicembre 2014), era stato varato l’“esonero triennale”, un’inedita incentivazione alle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, transitoria perché valida solo per il 2015, innovativa per chiarezza e semplicità dei requisiti richiesti, così consistente (fino a un max di 24mila euro per rapporti di lavoro proseguiti fino a 36 mesi) da configurare un colossale incentivo alle assunzioni, radicalmente diverso dai tanti piccoli provvedimenti che spostano, forse, solo il consenso di qualche sigla associativa. Nell’esplosione delle assunzioni a tempo indeterminato si mescolavano inevitabilmente gli effetti dell’esonero triennale e del contratto a tutele crescenti. Chi ha provato a distinguerli (il tentativo più noto è quello di Paolo Sestito ed Eliana Viviano) non ha avuto difficoltà a riconoscere la nettissima prevalenza dell’effetto esonero, né poteva essere diversamente sul piano strettamente congiunturale.

Di fatto, le imprese nel corso del 2015 (soprattutto a fine anno), recuperando parzialmente i livelli occupazionali scesi nella lunga fase di crisi 2009-2014, hanno fatto il pieno di posizioni a tempo indeterminato: perciò non desta meraviglia se nel triennio successivo (2016-2018) la crescita ulteriore dei posti di lavoro a tempo indeterminato è stata modestissima. Dell’esonero 2015 hanno largamente beneficiato anche le piccole imprese, ma nel complesso dell’intero periodo esaminato (2014-2024) le imprese maggiori (over 15 dipendenti) sono andate decisamente meglio delle piccole. Ciò spiega la crescita – sia pur lenta – della dimensione media delle imprese italiane, per effetto dell’aumento del numero delle imprese maggiori (figura 1),mentre la platea di quellepiccolissimerimane sostanzialmente ferma.

Figura 1 – Imprese private per classe dimensionale dei dipendenti, 2014-2023. Numero indice 2014=100 (fonte: elab. su dati Inps)

Perché tornano a crescere i contratti a termine

Nel contempo, a partire dal 2017, s’impenna il ricorso al lavoro a termine: per la prima volta si superano nell’anno i 3 milioni di assunzioni (al netto di stagionali, intermittenti, somministrati). Come mai? Non doveva il tempo determinato essere riassorbito dal contratto a tutele crescenti, data la “maggior facilità” (alias maggior certezza degli eventuali costi) di ricorrere ai licenziamenti? Evidentemente le imprese hanno continuato a preferire, ove possibile, il contratto a termine, perché il contratto a tutele crescenti non risulta un incentivo sufficiente a cambiare abitudini e valutazioni sul rischio connesso alle assunzioni a tempo indeterminato. Ma c’è stato anche dell’altro: da un lato si è manifestata l’onda lunga (ritardata) del “decreto Poletti” del 2014 con la facilitazione dei contratti a termine (sostituzione di vincoli quantitativi alle causali, con l’obiettivo di ridurre l’incertezza e deflazionare il contenzioso), dall’altro l’effetto “vasi comunicanti” generato dalla soppressione di altre tipologie di rapporti di lavoro (contratti a progetto e contratti di associazione in partecipazione abrogati proprio con il Jobs act e soprattutto i lavori occasionali a voucher soppressi  a marzo 2017), come documentato dettagliatamente nel Rapporto annuale Inps del 2018.

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“Decreto Poletti” da un lato e contratto a tutele crescenti dall’altro risultano aver determinato una cospicua deflazione del contenzioso, ma questo risultato non trova né riconoscimento né attenzione. Mediaticamente forse poco spendibile, è poco sostenuto anche a causa dell’erratica e insufficiente disponibilità di statistiche giudiziarie analitiche, adeguate a supportare la conoscenza dell’impatto socio-economico dei cambiamenti normativi.

La crescita dei rapporti di lavoro a tempo determinato tra il 2017 e il 2018 è stata la premessa necessaria per il temporaneo successo del “decreto Dignità” voluto dal governo giallo-verde nel 2018. Affidava la roboante mega mission di “abolire la precarietà” ad alcuni disincentivi: il parziale ritorno alla causalità da un lato e il rafforzamento di limiti numerici dall’altro. Gli effetti si sono dispiegati tra la fine del 2018 e il 2019: significativa (e favorita dall’alto numero di contratti a tempo determinato in essere) è stata l’accelerazione delle trasformazioni in tempo indeterminato – per la prima volta nel 2019 hanno superato le 700mila unità -, anche in tal caso “spinta” da nuove agevolazioni monetarie; quanto alla numerosità dei nuovi contratti a termine si registra – nonostante i proclami – una marginale riduzione: anche nel 2019 si mantengono sopra i 3 milioni. Più netto e duraturo è stato invece l’impatto sui contratti di somministrazione, con l’inversione a favore di quelli a tempo indeterminato.

Per l’insieme del lavoro dipendente i dati mensili Istat-Forze di lavoro (che non consentono un’analisi fine, per singola tipologia contrattuale) attestano che l’incidenza dei dipendenti “non permanenti” sul totale del lavoro dipendente si arresta nel 2019 attorno al 17 per cento, ma non scende: “abolire la precarietà” resta un programma troppo vasto, anche per il decreto Dignità. 

Più incisivi, dopo la pandemia, risultano i cambiamenti strutturali – soprattutto demografici ma anche tecnologici e professionali – che, per varie ragioni (riduzione dell’offerta di lavoro, ricerca di competenze particolari e altro), aumentando l’attenzione delle imprese per le strategie di fidelizzazione, sono all’origine della recente contrazione dell’incidenza del lavoro temporaneo (registrata nei dati Istat): negli ultimi 4 mesi disponibili, a partire da dicembre 2024, siamo scesi sotto il 14 per cento, il che vuol dire in valori assoluti un calo di circa 400-500mila unità rispetto ai valori massimi (oltre 3 milioni) raggiunti sia prima sia immediatamente dopo la pandemia.

Che cosa è successo ai licenziamenti

E i licenziamenti? Non dovevano crescere? L’introduzione del contratto a tutele crescenti non doveva provocare i “licenziamenti facili”, quasi all’anglosassone? Nulla di nulla. Anzi sì, qualcosa succede nel 2016 con una modesta risalita dei licenziamenti nei primi mesi dell’anno. Ma – si è capito ben presto – tutta dovuta alla “reazione”, temporanea, di adattamento (controintuitivo) all’obbligo introdotto da marzo 2016 di presentare le dimissioni esclusivamente on line (per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco): una complicazione, in particolare per le aziende cinesi, che ha favorito – transitoriamente – i licenziamenti. Al netto dell’imprevista increspatura, i licenziamenti tendono a diminuire, per l’effetto principe – – del miglioramento congiunturale, che conta più di tutto il resto. Poi è arrivata la pandemia, il blocco temporaneo dei licenziamenti economici e il successivo dibattito sui tempi per il ritorno alla “normalità”: se affrettati, si sarebbe rischiato – secondo alcuni presunti conoscitori del mercato del lavoro – un milione di licenziamenti. Ancora una volta nulla di tutto questo, come documentato nella figura 2, che riporta l’andamento dei licenziamenti economici e disciplinari dal 2014 al 2024, distintamente per imprese sotto e sopra la fatidica soglia dei 15 dipendenti.

Figura 2 – Licenziamenti economici e disciplinari in Italia, 2014-2024 (fonte: elab. su dati Inps)

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Due quesiti con un obiettivo politico

Ritenere dunque che il Jobs act abbia inferto un vulnus imperdonabile alle tutele dei lavoratori appare, sul piano degli effetti ottenuti, indimostrato. Che se poi allarghiamo il giudizio all’insieme degli interventi previsti con il Jobs act – dal ridisegno dell’indennità di disoccupazione con la Naspi alle restrizioni introdotte per i contratti parasubordinati a progetto e di associazione in partecipazione fino alla spinta alle politiche attive e altro ancora – la valutazione che “prima era meglio” appare, ancora più nettamente, un riflesso di giudizi conservatori e superficiali. E quindi il referendum, relativamente al primo e al terzo quesito (recupero della reintegra e delle causali per il tempo determinato), mostra ciò che vuole sostanzialmente, tutto sul piano politico: costringere il Pd a riconoscere di aver sbagliato, obbligarlo al mea culpa per essere andato troppo in là nel riformismo.

Che la regolamentazione dei rapporti di lavoro debba essere ancora rivista e precisata, anche alla luce degli interventi recenti della Corte costituzionale, è del tutto logico (chiare al riguardo sono le indicazioni di Pietro Ichino). Come pure non è affatto risolto il problema della precarietà: il calo significativo dei contratti a termine non basta. Molto si dovrebbe fare in più sul terreno dei controlli: se ci fosse un garante che si preoccupasse dei dati che non vengono utilizzati dalle amministrazioni pubbliche, avrebbe ampia materia di indagine. Basterebbe relativamente poco per guardar dentro le informazioni che le imprese trasmettono alle autorità pubbliche in tempo reale (a cosa serve altrimenti la digitalizzazione?) e restituire alle stesse segnalazioni immediate sullo sforamento dei tanti vincoli quantitativi (eventualmente, questi sì, da rafforzare) che già oggi la normativa prevede per i contratti a termine, senza ritornare alle causali, la cui opinabilità consegna ai giudici (imprevedibili) la valutazione sui fabbisogni occupazionali delle imprese. E senza dimenticare che tanti casi di precarietà immotivata e di bassi salari si radicano non tanto nei contratti a termine propriamente intesi ma in altre tipologie di rapporti di lavoro mal utilizzate: part-time troppo flessibili, intermittenti senza regole d’orario, tirocini ripetuti, partite Iva pretestuose. Questioni su cui reintegra e causali non c’entrano.

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