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Sovranità digitale: il ruolo strategico del cloud nazionale


La costruzione di un cloud italiano rappresenta oggi una priorità strategica per la sovranità digitale del Paese.

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L’ecosistema nazionale delle tecnologie cloud deve emergere come alternativa credibile al dominio degli hyperscaler globali, valorizzando le competenze italiane e garantendo controllo sui dati strategici.

Il dibattito sulla necessità di un’infrastruttura cloud nazionale si è intensificato di fronte ai rischi di dipendenza tecnologica e alle implicazioni geopolitiche del controllo digitale.

La prima conferenza nazionale del cloud italiano

Lo scorso 14 maggio il Consorzio Italia Cloud ha organizzato la prima Conferenza Nazionale sul cloud Italiano, riunendo a Roma aziende italiane, politici e stakeholder strategici per un confronto su come costruire un vero ecosistema nazionale del digitale: capace di valorizzare le nostre diffuse competenze, di promuovere sovranità e sicurezza e, in ultima analisi, di rafforzare la competitività del Paese.

Vale la pena sottolineare come il Consorzio, che raggruppa le aziende italiane attive nella filiera del cloud, sia aperto non solo a CSP puri, ma anche a operatori quali Independent Software Vendor (ISV), Managed Service Provider (MSP), System Integrator, Software House e telco. Questo perché crediamo fortemente nel ruolo centrale del cloud nazionale come abilitatore di una filiera articolata, trasversale e sinergica che include tutte le fasi della catena del valore.

Cloud sovrano e interesse nazionale

Lo stimolo dell’incontro è stata proprio la convinzione, radicata nella missione del Consorzio, che serva una cooperazione strutturata tra industria, politica, accademia e centri R&S per affrontare insieme le sfide tecnologiche, geopolitiche e di mercato. E che, oggi più che mai, innovazione e interesse nazionale possano e debbano camminare insieme.

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Nell’ottica del dialogo con la sponda politico-istituzionale, l’incontro ha offerto l’occasione di diffondere una lettera aperta indirizzata alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ai Ministri competenti nelle principali materie di riferimento: Università e Ricerca (Bernini), Imprese e Made in Italy (Urso), Pubblica Amministrazione (Zangrillo) e Innovazione Digitale (Sottosegretario Butti). Si tratta di un appello perché sia finalmente recepita l’importanza strategica dell’autonomia sovrana del Cloud nazionale rispetto al dominio oligopolistico degli hyperscaler globali. Un’importanza strategica ribadita anche nelle linee guida della Strategia Cloud del Paese, ma di fatto difficilmente implementata, a causa della supposta mancanza di un’alternativa nazionale affidabile.

Ma arrendersi a questa profezia auto avverante non è accettabile, se consideriamo i due assunti su cui poggia la società digitale:

  • I dati sono l’asset strategico più rilevante della nostra epoca. Materia prima assimilabile al petrolio o all’energia elettrica, il progresso oggi si fonda sulla qualità e quantità delle informazioni che generiamo, archiviamo e gestiamo elettronicamente. L’Intelligenza artificiale ne è una robusta conferma, ma vale per ogni tipo di elaborazione. Così come alle utility o alle società petrolifere i consumatori e il legislatore chiedono trasparenza (nelle tariffe, nei processi produttivi, nelle pratiche per una sana concorrenza), la stessa cosa dovremmo pretendere da chi gestisce i dati. Ma così non è con gli hyperscaler, da cui accettiamo commistioni di ruoli, opacità nel pricing e barriere all’uscita particolarmente vincolanti.
  • L’infrastruttura digitale è l’ossatura portante dell’economia globale. Non è solo un settore industriale a grande valore aggiunto, ma l’elemento trasversale che abilita praticamente tutti i modelli di business e a cui si improntano ormai anche le relazioni internazionali e tra gli Stati e i cittadini e le imprese. La formazione, i rapporti sociali, i servizi pubblici e privati sono sempre più mediati dalla componente digitale. Chi la gestisce e ne possiede le chiavi di accesso ha un vantaggio competitivo oggi inattaccabile.

Ne consegue che chi controlla il cloud può controllare i mercati, le persone e le stesse istituzioni. Sul cloud si riversano tutte o quasi le attività di rete e le azioni industriali e produttive delle filiere dell’innovazione. Se il controllo del cloud rimane nelle mani di soggetti esteri, vengono minati i nostri interessi nazionali.

Per preservare il proprio posto nel mondo e prosperare, un ecosistema di interessi (tipicamente, nazionali) deve proteggere e potenziare le competenze digitali strategiche legate al possesso delle informazioni e alla capacità di elaborarle,generando valore. Queste competenze sono la capacità di memoria e la potenza di calcolo, assicurate dal cloud.

I rischi del monopolio degli hyperscaler

Oggi, in Italia, il cloud è invece un settore nel quale, in assenza di nuove direttrici da parte del governo, rischiamo di trovarci in deficit di asset, di competenze e di iniziative d’impresa nazionali, tutti elementi che ostacolano la crescita del Paese in quel contesto di indipendenza e sovranità nazionale unanimemente auspicato.

Un ragionamento specifico merita il settore dei Data Center, per sgombrare il campo da un equivoco diffuso.

Le multinazionali annunciano infatti ingenti investimenti nel “mattone” del digitale, riscuotendo entusiasmo e generando aspettative di crescita per i territori interessati. La verità è che il Data Center -nel senso dell’edificio che ospita le macchine fisiche e virtuali degli hyperscaler- non dà garanzia di sovranità, perché a determinare la localizzazione e il valore sono le piattaforme (tutte remote), mentre dal semplice real estate non si sviluppano né risorse reali (la messa in opera è frutto di transazioni estero su estero), né occupazione massiccia o competenze (risiedono tutte nei centri di controllo basati all’estero).

Quello che certamente ci portiamo in casa è il consumo di suolo, di acqua, di energia e i conseguenti temi di sostenibilità ambientale. Nel frattempo, la filiera nazionale, popolata da decine di PMI che avrebbero bisogno di un ecosistema su cui contare per sfruttare le economie di scala, agiscono in solitudine, senza una politica nazionale che valorizzi le risorse imprenditoriali e le competenze nazionali.

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Equilibri geopolitici e ruolo del cloud italiano nell’era digitale

Il mondo sta faticosamente cercando nuovi equilibri geopolitici, che non riguardano solo la revisione dei rapporti di forza tra Stati o aree di influenza, ma persino una ridefinizione del ruolo dei Governi in quanto unici rappresentati ufficiali delle istanze di un determinato sistema di interessi nazionale.

In questa fase storica, grazie alle loro dimensioni e rilevanza strategica, i grandi player globali delle tecnologie avanzate hanno rafforzato e ampliato il loro ruolo ben oltre quello di pure potenze economiche: si tratta ormai di centri di potere politico, culturale, sociale che arrivano a dialogare alla pari con i governi democraticamente eletti, se non addirittura a condizionarne l’operato e le scelte.

Tutto ciò, continuando a perseguire la legittima missione del profitto e non quella dell’interesse di uno Stato e di tutti i suoi cittadini.

Cloud sovrano e ridefinizione dei rapporti di potere

In questo senso, la cerimonia di insediamento della nuova presidenza USA iniziata nel 2025 ha rappresentato un momento simbolico, con i vertici dei principali conglomerati tecnologici globali in prima fila al fianco dell’amministrazione entrante. Al di là dei simboli, è evidente agli occhi del mondo che le poche Big Tech globali costituiscono una sorta di super Stati in sovrapposizione –e potenzialmente in conflitto- con quelli ufficiali, in cui i cittadini diventano consumatori, con la perdita di prerogative democratiche che ne consegue. 

Lo scenario può assomigliare alla trama di un film distopico di fantascienza, ma è reale e occorre farci i conti pragmaticamente. Oggi, non esiste sovranità che non passi dal controllo della tecnologia, materia prima del terzo millennio: il perimetro geografico di questo controllo determina l’area di influenza e di interesse, ovvero l’area di sovranità.

Cloud italiano sovrano: definizione e caratteristiche strategiche

Il cloud è l’infrastruttura principale a cui si applica questa regola. La domanda è: come garantire la sovranità del cloud, che per sua stessa natura è un modello senza confini e poggia il proprio valore distintivo su questa caratteristica? È un tema di rilevanza istituzionale, ma anche di business, con tutte le implicazioni in termini di sicurezza, protezione dei dati e salvaguardia della proprietà intellettuale.

In molti casi le aziende italiane che comprendono come questa esigenza vada oltre i semplici requisiti di compliance, affrontano il tema del cloud sovrano facendo ricorso a soluzioni di Private Cloud.

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In prospettiva, sono anche quelle che gettano le basi per la generazione di AI private: una garanzia sul perimetro entro il quale i dati verranno trattati, ma anche una limitazione delle potenzialità degli strumenti.

Questa non deve necessariamente essere la risposta: il modello di Public Cloud proposto dagli hyperscaler è percorribile anche restando all’interno di un perimetro normativo giuridico definito e non globale, a tutela delle informazioni strategiche. Ma serve un’infrastruttura nazionale robusta e resiliente, la cui architettura replichi sul territorio nazionale il modello delle Big Tech.

Non dimentichiamo mai che i nostri dati sono merce preziosa: il loro utilizzo sapiente e massiccio può generare vantaggi per chi li tratta, senza il nostro consenso informato e anche non necessariamente a nostro beneficio. Come recita un fortunato adagio attribuito al giornalista e scrittore Andrew Lewis, ormai ampiamente condiviso: “Se non lo state pagando, allora non siete il cliente: siete il prodotto che stanno vendendo”.

Che cosa intendiamo per cloud sovrano?

In un articolo su Politico del gennaio 2025, Johan David Michels, Ricercatore del Cloud Legal Project alla Queen Mary University (Londra) ne dà una definizione ampia. Prima di tutto, il cloud sovrano è un servizio che permette all’utilizzatore di esercitare un alto livello di controllo, di prendere decisioni informate in autonomia e di trasferire ad altro provider o riportare all’interno i propri dati. Una definizione che il ricercatore poi allarga a includere anche il tema dell’accesso ai dati: se un governo straniero può chiedere al cloud provider di accedere ai dati senza autorizzazione da parte del titolare, non si può parlare di cloud sovrano. 

La prima parte della definizione di sovranità di Michels, in particolare, si può forse rendere meglio con l’espressione di indipendenza digitale, preferibile per chiarezza e ampiezza. Per indipendenza non si intende quindi una visione sciovinista, ma il poter operare scelte libere e prendere decisioni autonome rispetto all’utilizzo di infrastrutture, piattaforme, hardware e strumenti software. Il tutto, potendo consapevolmente scegliere di restare all’interno di un perimetro di interessi comune, anche rispetto alla protezione dei dati, che il Consorzio Italia Cloud identifica con l’ambito nazionale.

Nel digitale, il tema della indipendenza riguarda principalmente l’ambito cloud, elemento abilitante dello sviluppo sociale, economico e industriale del paese, per le sue caratteristiche intrinseche e in quanto depositario della capacità di memoria e della potenza di calcolo.

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L’IA, tutto lo sviluppo applicativo moderno e i nuovi modelli di business si fondano sulle capacità offerte da questo modello.

I rischi “invisibili” della dipendenza tecnologica

Entrato finalmente nella narrazione mainstream, anche a causa di squilibri geopolitici imprevedibili fino a poco tempo fa, il tema della sovranità digitale è stato a lungo ignorato o considerato frutto di una mera posizione ideologica. In realtà basta fare alcuni esempi concreti per capire la rilevanza delle implicazioni sociali, culturali ed economiche di lungo termine della dipendenza dalle poche Corporation globali.

Pensiamo al sistema universitario, che rischia di sommarsi ad altre componenti importanti del settore pubblico, con scelte controproducenti per l’Italia perché generano esclusivo vantaggio a favore di soggetti stranieri che peraltro spostano gettito fiscale e ricadute tecnologiche al di fuori del nostro perimetro di interessi nazionali. Tali scelte errate, protrattesi nel tempo, rischiano oggi di invalidare in modo strutturale e irrimediabile la capacità di libera valutazione da parte di studenti e giovani laureati e quello spirito critico che contraddistingue il più nobile e proficuo obiettivo dell’istruzione superiore.

Dipendenza universitaria e formazione orientata alle big tech

In questo senso, risulta particolarmente deviante il sistema di voucher a consumo e convenzioni che le cosiddette Big Tech, senza esclusioni, mettono a disposizione delle università su tutto il territorio nazionale attraverso protocolli di intesa con la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI). Questi accordi, sostanzialmente preclusi alle realtà nazionali del settore, siglati in virtù di un apparente vantaggio economico e di aggiornamento tecnologico, diventano un veicolo che indirizza in modo silente la formazione superiore verso specifici prodotti e soluzioni di mercato, valorizzando le competenze ad essi collegate.

Effetti della dipendenza tecnologica sulla filiera nazionale

In particolare, tale approccio, che ha coinvolto anche scelte pubbliche significative indirizzate al settore, ha generato fenomeni di penalizzazione delle imprese nazionali:

  • Limitando gravemente l’apprendimento al mero campo applicativo, modellandolo su prodotti e servizi tecnologici già disponibili e inibendo negli studenti la costruzione di più ampie competenze teoriche che, da sempre, costituiscono la linfa attraverso cui i talenti STEM concepiscono e producono innovazione radicale, mantenendo la ricerca italiana a livelli di eccellenza assoluta;
  • Orientando gli studenti, futuri decisori aziendali, al ricorso esclusivo a un ristretto oligopolio di fornitori globali, non per scelta consapevole, ma come esito naturale di un percorso formativo a senso unico, privo di qualunque soluzione alternativa;
  • Interrompendo sul nascere quel circolo virtuoso attraverso cui l’università e la ricerca contribuiscono in termini di competenze e persone alla realizzazione delle potenzialità della filiera industriale nazionale, che risulta invece in questo settore pressoché ignorata e francamente esclusa, con minime eccezioni, dagli investimenti e dalle commesse pubbliche.
  • Predisponendo naturalmente i laureati all’esodo verso l’estero, attratti dagli operatori sulle cui piattaforme si sono formati. L’università italiana, riconosciuta come un sistema di altissima qualità, rischia di mettere la propria eccellenza didattica al servizio di soggetti stranieri che a questo sistema non contribuiscono fiscalmente, sottraendo talenti preziosi al mercato interno del lavoro.  

La formazione universitaria è il primo tassello della filiera, o anche l’ultimo se guardiamo a quest’ultima come a un circolo a fasi ricorrenti, ma questo tipo di ragionamento si applica anche all’industria, dalle infrastrutture ai software.

Ecco perché è tanto importante che il committente pubblico -un big spender per gli hyperscaler, che non a caso riservano grande cura ai public affair– orienti la propria domanda anche su criteri di sovranità e indipendenza. La notizia di questi giorni è che un bando Consip abbia inserito un operatore cloud nazionale, Aruba, tra i fornitori qualificati. È la prima volta che succede. Un segnale incoraggiante, che però non deve rimanere isolato: la garanzia di sovranità del dato deve diventare la norma nei criteri di selezione dei fornitori dello Stato.

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Chiamata all’azione per il cloud italiano

Il Consorzio Italia Cloud lancia una chiamata a raccolta agli operatori nazionali del digitale, alle istituzioni, ai media. Temiamo che il persistere della sudditanza verso le Big Tech rischi di consegnare velocemente i destini del Paese nelle mani di poche multinazionali. Si può ancora agire per una inversione di tendenza, ma bisogna fare presto, col contributo di tutti.



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