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Il circolo vizioso della precarizzazione


La questione salariale in Italia è ormai ineludibile. Un recente studio dell’ufficio dell’economia della CGIL nazionale ha evidenziato come nel 2023 il 35,7% dei dipendenti del settore privato – 6,2 milioni di lavoratori e lavoratrici – abbia percepito un salario inferiore a 15 euro lordi annui. Peraltro, lo studio è basato sulla banca dati INPS che esclude il settore agricolo e domestico, due settori caratterizzati da bassi salari, e pertanto con ogni probabilità questo dato è sottostimato. A loro volta, queste basse retribuzioni riflettono un trend ormai pluridecennale di caduta dei salari reali in Italia, evidenziato da svariate organizzazioni internazionali, dall’OCSE all’OIL. È dagli anni ’90 che la dinamica salariale in Italia risulta infatti stagnante, un dato che discosta il nostro paese dalle altre cosiddette economie avanzate, che hanno registrato, sia pur con diverse modalità, una crescita dei salari reali.

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Il volume Lavoro e salari in Italia (Carocci, pp. 192, euro 22), curato da Lia Pacelli e Rinaldo Evangelista, fornisce strumenti utili per comprendere le cause di questa dinamica e provare ad avanzare delle soluzioni. Il punto principale che emerge dal libro è che la dinamica negativa dei salari reali in Italia è il risultato del combinato disposto di tendenze più generali del regime di accumulazione capitalistico che si afferma dagli anni ’80 del ‘900 – che ha contribuito a spostare la bilancia dei rapporti di forza a favore delle imprese – e di specifiche debolezze strutturali dell’economia italiana. Fra queste: l’eccessiva presenza di piccole e piccolissime imprese con ridotte capacità di innovazione e dove il sindacato è inesistente, il collocamento delle imprese italiane in segmenti meno profittevoli delle catene globali del valore, la deindustrializzazione e la progressiva ‘terziarizzazione’ dell’economia basata sulla crescita di servizi a basso valore aggiunto.

Vi è poi la questione delle scelte politiche. Dagli anni ’90, i governi italiani che si succedono – tecnici, di centro-destra e centro-sinistra – mettono in atto politiche di moderazione salariale, raggiunte sovente tramite accordi tripartiti nell’alveo della concertazione, per assicurare l’ingresso dell’Italia nell’Eurozona e più in generale per mantenere la competitività delle imprese italiane nel mercato unico. A questo si aggiunge la progressiva liberalizzazione dell’uso di contratti precari, col fine dichiarato di aumentare l’occupazione costi quel che costi. Il risultato è una pressione al ribasso sui salari: come mostrano vari capitoli del volume, la povertà lavorativa in Italia è il risultato non tanto e non solo di bassi salari orari, ma anche di rapporti lavorativi discontinui e frammentati. A loro volta, queste ‘riforme’ impattano negativamente su innovazione e produttività: se il costo del lavoro è basso, alle imprese non conviene investire su tecnologia e innovazioni di prodotto. Il risultato è un circolo vizioso che contribuisce a deprimere ulteriormente i salari.

Le implicazioni sulle politiche del lavoro risultano dunque piuttosto chiare. In primis, invertire la rotta sulla precarizzazione del lavoro, che dai contratti a tempo determinato si è estesa anche a quelli a tempo indeterminato con la riforma Fornero e il Jobs Act di Matteo Renzi. Votare sì ai quattro quesiti referendari sul lavoro dell’8 e 9 giugno, insieme a quello sulla cittadinanza, offre certamente una prima possibilità di provare a rafforzare il potere istituzionale di lavoratori e lavoratrici in Italia. Occorrerebbe poi rilanciare la campagna su un salario minimo adeguato e indicizzato all’inflazione, possibile strumento per trainare anche i rinnovi dei contratti collettivi nei settori a basso salario, come accade in Francia. Infine, il fallimento della concertazione mostra come il sindacato dovrebbe riscoprire l’arma del conflitto che, pur con alcune eccezioni importanti, sembra aver messo nel dimenticatoio.



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