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Diyala D’Aveni: “Dal negozio Eataly alla guida di Vento, Torino culla di startup”


Le carriere, dice Diyala D’Aveni, a volte nascono da decisioni prese per le ragioni sbagliate. «Sono cresciuta a Torino, ho frequentato il liceo d’Azeglio. Quando è arrivato il momento di scegliere l’università, tutti facevano Giurisprudenza o Medicina. Io no. Volevo andarmene. Un amico stava pensando alla Bocconi, l’ho accompagnato a un open day e mi sono innamorata di un professore, del suo corso. Ho fatto il test, mi hanno presa. E così mi sono iscritta a Economia e Scienze sociali: pensavo fosse un percorso più umanistico, invece era tutto matematica e statistica. L’indirizzo più impegnativo, a livello accademico. E con un costo che, a quei tempi, per me era abbastanza proibitivo. Così, ho iniziato a lavorare».

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Classe 1992, oggi Diyala è tra le poche donne under 35 in Italia ad avere in gestione finanziamenti milionari per le imprese del futuro. È amministratrice delegata di Vento, il fondo privato di venture capital finanziato da Exor che, dal 2022 a oggi, ha investito in oltre cento startup, e siede nel consiglio di amministrazione di Gedi, il gruppo editoriale che pubblica questo giornale. Si racconta dal quartier generale nell’ala tech delle Officine grandi riparazioni, la vecchia fabbrica che ha saputo riportare la città al centro delle mappe dell’innovazione d’Europa.

«Non avevo la minima idea di quale strada prendere. L’ho capito con il tempo. Ai ragazzi dico sempre la verità: il pensiero che tu debba sapere da subito dove vuoi arrivare è falso. È un’illusione, credo legata al desiderio di protezione dei genitori. I miei, per esempio, mi dicevano “non lasciare il posto fisso”, lo facevano per proteggermi, non per tarparmi le ali. Ma oggi che la tecnologia rivoluziona il lavoro ogni cinque anni, quel consiglio non funziona più».

Nel caso di Diyala, il posto fisso si chiamava Eataly. «Avevo diciotto anni quando ho iniziato a lavorarci, nel negozio in via Lagrange. Era il 2011, gli inizi. Cresceva tutto, i manager erano giovanissimi. Mi hanno trasferita a Milano, ho lavorato nel padiglione a Expo 2015 nei public affairs. Era un impiego a tempo pieno, e così non ho potuto fare l’Erasmus. Allora ho deciso di licenziarmi e andare a Berlino per una doppia laurea in Public Policy. Ho preso tutti i miei risparmi e sono partita. Paradossalmente, è lì che ho capito di voler tornare a Torino».

Per l’Italia, e per la città, era un momento delicato. «Non c’era lavoro, il tasso di disoccupazione era altissimo. Così ho trovato un Mba tra Torino, Parigi, Ginevra e Monaco. Mi hanno presa. Lì, nel 2016, ho incontrato per la prima volta il mondo delle start-up, durante un corso di innovazione. C’erano varie fondazioni e famiglie a sostenere il programma, ed è lì che ho conosciuto John Elkann. Ho rifiutato un’offerta da una multinazionale, mi sono offerta di fare degli esperimenti nell’ecosistema dell’imprenditorialità in Italia, dai corsi di formazione agli eventi. Le cose sono andate bene, ed è nata Vento: oggi abbiamo un’attività di investimento, una di venture building (il programma che fa nascere nuove start-up, associando giovani talenti e idee innovative, ndr) e organizziamo l’Italian Tech Week. È stato tutto frutto di notti insonni e del lavoro di un team incredibile. E continuiamo a non dormire».


Tutte «le nostre attività – racconta – si basano sulla scommessa che l’ecosistema delle startup, in Italia, crescerà. E pensiamo di poterla vincere». Cosa manca ancora al Paese? «Investitori dall’estero, competenze più mature. Lavoriamo ogni giorno perché il programma ci aiuti a raggiungere quel tipo di successo. È un mestiere fatto al 90 per cento di relazioni umane, sia con i founder che con altri investitori».

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Tra i corridoi delle Ogr «ogni giorno è diverso, passiamo tanto tempo con i founder, con le aziende nel nostro portafoglio». All’inizio del suo percorso, spiega, «pensavo di lavorare con enti pubblici o internazionali, perché volevo avere un impatto. Poi ho capito che lì tutto era lentissimo. Con le startup invece puoi cambiare le cose nel breve termine. In Francia l’ecosistema ha creato un milione di posti di lavoro. Le startup possono fare questo: generare impatti concreti e diffusi».

In Vento, dice, «l’idea conta poco. Noi investiamo agli inizi, quando spesso non c’è nemmeno un prodotto. Ci guidano due cose: la qualità delle persone e il potenziale del mercato. Gli investimenti buoni devono andare così bene da coprire anche quelli persi».


Ad oggi Vento ha esaminato oltre 3.500 startup. Su chi puntate? «Non esiste un identikit, ma alcune caratteristiche sì: eccezionalità in qualcosa – abbiamo investito in ex campioni olimpici e vincitori di tornei di scacchi – e un’esperienza profonda in un settore». Per anni il mondo della tecnologia è stato prevalentemente maschile. Essere donna, ovviamente, «non mi ha favorito, soprattutto in Italia. Nel mondo dei founder è ancora più difficile. All’inizio ci restavo male. Poi ho capito che dovevo restare concentrata sulle persone disposte ad ascoltare. Ho imparato a tenere il punto, a dare l’esempio, anche in piccoli gesti: declinare i ruoli al femminile, far parlare i risultati. Oggi mi ascoltano perché con Vento abbiamo ottenuto risultati tangibili. Ci sono state persone che mi ignoravano, poi diventavano disponibili e accondiscendenti appena capivano che passava tutto da lì».

Diyala, che consiglio darebbe a una ragazza di vent’anni? «Le direi di non fermarsi. Di usare un pizzico d’incoscienza. Alla fine, ogni sforzo paga, anche quando sembra insostenibile». Come vede Torino oggi? «Forse un po’ più internazionale. A volte capita di sentire parlare inglese, non soltanto qui alle Ogr. La città si sta proiettando nel futuro, ma resta campanilista. La capacità di trattenere i giovani è migliorata, ma siamo ancora indietro. Tanti talenti sono andati via, alcuni stanno tornando per mettere su famiglia. Ma la maggior parte è ancora fuori, da Torino e dall’Italia».



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