A tre anni dal decreto ministeriale per una riforma della sanità in senso territoriale, siamo ancora lontani dal suo compimento. Il target del Pnrr prevede la realizzazione di oltre mille centri per l’assistenza sanitaria di prossimità entro giugno 2026, ma la realtà si scontra con i numeri. Ci sono solo 164 strutture pienamente attive, concentrate in poche regioni: «Se l’investimento non comprende anche il personale, non funziona»
«È difficile fare grandi riforme a parità di risorse, in particolare in un contesto dove il personale, lungi dall’essere in eccesso, è stra-utilizzato ed è addirittura in difetto». Il decreto ministeriale 77 del 2022 intendeva portare avanti una riforma del sistema sanitario in un’ottica territoriale, ma questa stenta a concretizzarsi e una delle cause potrebbe proprio essere il problema evidenziato dalle parole della professoressa Elena Granaglia, docente di scienza delle finanze all’Università Roma Tre e co-coordinatrice del Forum disuguaglianze e diversità.
«La costruzione di strutture per le comunità era una bella idea del Pnrr, ma rischiava (e si è visto) di correre un po’ senza gambe. Perché, se non si finanzia la spesa per il personale e l’investimento è solo nella struttura, la sanità poi non funziona», spiega infatti la professoressa.
Il nodo case della comunità
Uno dei punti principali della riforma territoriale della sanità è la realizzazione delle Case della comunità. Secondo il dm 77, esse sono «il luogo fisico e di facile individuazione al quale i cittadini possono accedere per bisogni di assistenza sanitaria, socio-sanitaria a valenza sanitaria e il modello organizzativo dell’assistenza di prossimità per la popolazione di riferimento».
Le Case della comunità (Cdc) dovrebbero lavorare in senso multidisciplinare per progettare ed effettuare interventi sanitari o indirizzare le persone verso i professionisti giusti. Si legge nell’allegato 1 del decreto che «l’attività, infatti, deve essere organizzata in modo tale da permettere un’azione d’équipe tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali, infermieri di famiglia o comunità, altri professionisti della salute disponibili a legislazione vigente nell’ambito delle aziende sanitarie, quali ad esempio psicologi, ostetrici, professionisti dell’area della prevenzione, della riabilitazione e tecnica, e assistenti sociali anche al fine di consentire il coordinamento con i servizi sociali degli enti locali».
Secondo un monitoraggio portato avanti dalla fondazione Gimbe sull’attuazione del Pnrr, però, l’Italia è ancora molto indietro nella realizzazione di questa riforma. Le scadenze previste dalla missione Salute sono state per il momento rispettate, ma nel concreto le nuove strutture sono ancora lontane dall’essere completate.
Secondo il rapporto di Gimbe, infatti, «al 20 dicembre 2024, su 1.717 Cdc previste, per 1.068 (62,2 per cento) le regioni non hanno dichiarato attivo alcun servizio tra quelli previsti dal dm 77; per 485 strutture (28,2 per cento) è stato dichiarato attivo almeno un servizio e solo per 164 (9,6 per cento) tutti i servizi obbligatori sono stati dichiarati attivi. Di queste ultime, tuttavia, soltanto 46 (2,7 per cento del totale) risultavano pienamente operative, cioè con presenza sia medica che infermieristica».
In realtà – come si legge sul portale del ministero della Salute dedicato al Pnrr – i target finali prevederebbero a ora la realizzazione di almeno 1.038 Case della comunità, dopo una rimodulazione del piano approvata a fine 2023 «a causa dell’aumento medio dei costi dei materiali di costruzione e in taluni casi dei ritardi dovuti alla necessità di rinvenire finanziamenti addizionali».
Disparità tra le regioni
Anche così, le 164 strutture con tutti i servizi dichiarati attivi rimangono però un numero bassissimo rispetto al totale, che lascia molti dubbi sulla realizzazione completa della riforma. Senza considerare le consuete disparità tra le varie regioni. Delle 164 Case attive prima citate, 95 si trovano infatti nelle sole Lombardia ed Emilia-Romagna, mentre in Basilicata, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta non c’è una struttura attiva.
A questo punto è difficile sapere se il target verrà raggiunto, anche se il ministero della Salute, interpellato da Domani, «conferma a livello nazionale il raggiungimento del target finale M6C1-3 riferito alle Case di Comunità, entro la scadenza del Pnrr», aggiungendo che «l’obiettivo include da un lato la realizzazione degli interventi strutturali, dall’altro l’organizzazione e l’attivazione dei servizi in conformità con gli standard del dm 77/2022. Il cronoprogramma pertanto è coerente con le tempistiche del Pnrr e, in via generale, l’attivazione delle Case della comunità è attesa nel corso del I semestre 2026 (in linea con quanto programmato)».
Secondo un monitoraggio della cabina di regia della missione 6, a febbraio 2025, era stato infatti attivato o concluso il 91 per cento dei cantieri, con 85 ancora da avviare. Per spiegare le lunghe tempistiche di attivazione, il ministero segnala poi che «prima dell’avvio degli interventi, la Missione 6 ha dovuto mettere in campo la riforma oggetto di Milestone (dm 77 riforma assistenza territoriale) e una serie di attività programmatorie e organizzative, propedeutiche all’apertura dei cantieri, così come previsto dalle procedure del Piano».
Una questione di scelte politiche
Tuttavia, possono rimanere dubbi su quanto sia stato fatto finora e ci si può iniziare a interrogare sulle cause. Secondo la professoressa Granaglia, la frammentazione della sanità in quanto materia concorrente tra stato e regioni ha un impatto, ma c’è in generale un problema di governance multilivello: «L’essere materia concorrente era perfettamente compatibile con un ruolo di governance nazionale forte, di supporto, di condizionalità nei finanziamenti, di controllo di quello che fanno le regioni. Invece in questi ultimi anni abbiamo visto un forte impoverimento delle risorse e di capacità tecniche all’interno del ministero della Salute e quindi è stata carente questa governance».
La grande eterogeneità a livello regionale è perciò anche una conseguenza di questo. Secondo Granaglia, c’è inoltre un problema di priorità, perché i finanziamenti per il personale «non sembrano all’ordine del giorno. Noi abbiamo una prospettiva di spesa per l’SSN che va a scendere attorno al sei per cento del Pil, più o meno due punti in meno di quella che è la spesa degli altri paesi a cui noi ci possiamo comparare. Penso che il problema non sia però una insostenibilità intrinseca di questo finanziamento. Io credo che al momento sia difficile per il clima politico, per la posizione politica. È chiaro che aumentare i finanziamenti non è facile, però esistono margini di bilancio, si possono riallocare risorse da un settore all’altro».
Si tratta, quindi, di scegliere quali settori di spesa sono una priorità più importante e quali lo sono di meno.
© Riproduzione riservata
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link