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la nuova Irpef del governo Meloni penalizza i redditi bassi


La scelta del governo Meloni di rendere strutturale il taglio del cuneo contributivo sostituendolo con un sistema di bonus fiscali non ha solo comportato, come già noto, una perdita netta per 800mila lavoratori. Si tradurrà in una beffa per una fascia ben più ampia: tutti quelli con redditi bassi. Che rischiano di vedere azzerati i benefici degli interventi varati, in teoria, per lasciare più soldi nelle loro tasche. È il risultato del nuovo disegno dell’Irpef post legge di Bilancio 2025, che rende il sistema ancora più esposto all’effetto perverso del cosiddetto fiscal drag o drenaggio fiscale, la “trappola” per cui in presenza di inflazione le tasse pagate aumentano anche se lo stipendio, in termini reali, vale di meno.

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A mostrarlo chiaramente è una simulazione inserita nel Rapporto sulla politica di bilancio dell’Ufficio parlamentare di bilancio, appena pubblicato: la curva delle aliquote in vigore dallo scorso 1 gennaio “amplifica l’impatto di eventuali pressioni inflazionistiche” sul prelievo a carico dei lavoratori dipendenti, spiega l’authority indipendente. Che da questo punto di vista boccia la riforma, sottolineando che se si vogliono sostenere i redditi bassi attraverso il sistema fiscale è opportuno “prestare particolare attenzione al disegno” degli strumenti utilizzati e “alle conseguenze che ne derivano”. Ormai il danno è fatto: “In un contesto in cui la dinamica retributiva è risultata già di per sé insufficiente a compensare l’inflazione“, scrive l’organismo guidato da Lilia Cavallari, “l’intensificazione del prelievo fiscale derivante dall’interazione tra inflazione e progressività rischia di erodere in misura significativa gli incrementi nominali delle retribuzioni con rilevanti conseguenze sulla loro dimensione reale”.

A pagare saranno le categorie più in difficoltà a causa dei fortissimi aumenti dei prezzi (15% cumulato) che si sono registrati tra 2022 e 2024: operai e impiegati. Che nei prossimi anni, ipotizzando che l’inflazione resti su livelli moderati ma sia persistente, subiranno forti aumenti del prelievo fiscale. L’Upb, utilizzando il proprio modello di microsimulazione, ha calcolato che è sufficiente un tasso del 2% (il livello ritenuto adeguato dalla Bce) per produrre un incremento di tasse pari a 370 milioni di euro rispetto al gettito del vecchio sistema: +13%.

Fonte: Rapporto sulla politica di bilancio dell’UPB

Un operaio si ritroverà a pagare una maggiore imposta del 5,5%, pari a circa 79 euro, mentre prima della decontribuzione e dei nuovi bonus il maggior esborso dovuto al drenaggio fiscale si sarebbe fermato al 3,2%, 67 euro. Per gli impiegati il danno si prospetta ancora maggiore: la categoria nel complesso verserà 1,2 miliardi in più, 141 euro a testa, contro i 989 milioni di aggravio totale (116 euro pro capite) stimabili prima della riforma. Il risultato? Entrate in aumento per la gioia del governo mentre i lavoratori si vedranno “mangiare” dal fisco gli aiuti più volte rivendicati dalla premier e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Con prevedibili effetti negativi sui consumi e la domanda interna, come nota ancora l’Upb.

Le altre categorie di contribuenti, come pensionati, autonomi e proprietari immobiliari che vivono di affitti, non subiranno invece aumenti significativi non essendo interessate dalle nuove detrazioni introdotte da quest’anno, che hanno reso il sistema “più progressivo e dunque più esposto al drenaggio fiscale, amplificando l’impatto di eventuali pressioni inflazionistiche”.

In una precedente analisi, l’Upb era arrivato alla conclusione che il drenaggio fiscale ha più che compensato gli effetti positivi dei tagli Irpef e dei bonus varati nell’ultimo decennio. Il fenomeno viene solitamente legato ai rinnovi contrattuali, dopo i quali il lavoratore in presenza di forte inflazione finisce per veder crescere il prelievo – in proporzione – più di quanto sia cresciuta la sua paga lorda e recupera così solo una parte del potere d’acquisto perso. Ma come detto si fa sentire, in senso lato, anche in assenza di modifiche al contratto di lavoro: se lo stipendio non aumenta o cresce meno dell’inflazione il potere d’acquisto diminuisce, quindi si è oggettivamente più “poveri”, mentre le tasse restano quelle di prima. Fino all’inizio degli anni Novanta, scaglioni Irpef e detrazioni venivano indicizzati proprio per scongiurare questo esito.

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