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L’attacco di Israele all’Iran apre un nuovo pericoloso capitolo


Al di là delle oggettive difficoltà da affrontare nel contesto del negoziato fra Stati Uniti e Iran sulla questione nucleare, diversi elementi esterni al negoziato stesso rischiavano di farlo fallire. Tra questi: la ripresa della politica di maximum pressure da parte di Washington, destinata, come già in passato, a non produrre gli esiti attesi nel negoziato ma ad alimentare una crescente sfiducia quanto alle reali intenzioni degli Stati Uniti; l’attesa valutazione dell’AIEA sulle attività nucleari, passate e presenti, iraniane e la conseguente presa di posizione da parte del Consiglio dei Governatori; l’eventuale attivazione (legata anche alla valutazione dell’AIEA) da parte degli E3 (Francia, Germania e Regno Unito) del meccanismo dello snapback, previsto dalla risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza per reintrodurre le sanzioni decise in ambito ONU in caso di mancato rispetto del JCPoA; e infine le iniziative di coloro che, dentro e fuori l’Amministrazione Trump, si oppongono alla via diplomatica per la soluzione della questione nucleare iraniana.

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Possiamo oggi dire che molto di quanto precede è stato messo in opera affinché il negoziato, già complesso di per sé, fallisse.

Netanyahu aveva registrato come un suo successo la decisione di Trump di uscire dal JCPoA nel 2018. Fin dall’inizio della crisi a Gaza, agitando la pericolosità della minaccia nucleare iraniana e la necessità di farvi fronte con lo strumento militare, Israele ha cercato di far passare in secondo piano la questione palestinese e di acquisire il sostegno dei paesi europei e di quelli arabi (conseguendo un certo successo con i primi, soprattutto con gli E3, meno con i secondi).

L’operazione militare israeliana iniziata la notte scorsa e proseguita stamani è un azzardo di cui sfugge il fine ultimo. È risaputo che l’opzione militare non è suscettibile di eliminare il programma nucleare iraniano. Sarebbe anche illusorio pensare che possa minare le fondamenta del sistema di potere della Repubblica Islamica. Accresce invece l’isolamento internazionale del governo Netanyahu, che, nel tentativo di distogliere l’attenzione dalla situazione a Gaza e di assicurare la propria sopravvivenza in un momento di debolezza, sceglie di destabilizzare ulteriormente la regione.

Nel caso degli Stati Uniti colpisce lo scollamento fra l’approccio negoziale e la realtà. Come già avvenuto col conflitto in Ucraina, anche con l’Iran Trump sembra ignorare quanto, in base all’esperienza e alla conoscenza dell’interlocutore, può funzionare o non funzionare in termini di leve negoziali. Nel caso della Russia, Trump si era illuso di disporre di leve che non aveva. Nel caso dell’Iran continua ad abusare di leve che non sono destinate a produrre i risultati attesi.

L’Iran, come anche la Cina, ha una tradizione consolidata di resistere alle pressioni esterne, percepite come ingiustificate e illegittime. Nel caso di Teheran il concetto di resilienza, che è parte integrante dell’identità della Repubblica Islamica, può giungere anche a forme di autolesionismo che portano a difendere il diritto a un programma nucleare civile a discapito dello sviluppo socioeconomico del paese.

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Vi è poi la conferma di come l’alleato israeliano sia in grado di determinare le scelte di Washington, che nei suoi confronti non vuole o non può utilizzare le potenti leve negoziali di cui peraltro dispone. Sarà ora difficile per gli USA non spendersi a tutela della sicurezza di Israele nel caso di una risposta iraniana. E questo mentre negli ultimi mesi Trump aveva dato l’impressione di avere di fatto lasciato mano libera a Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania in cambio di spazio nel tentativo negoziale con l’Iran.

Durante la recente visita nei paesi del Golfo, Trump aveva ricevuto dai suoi interlocutori un messaggio univoco di sostegno alla via diplomatica con Teheran e di opposizione all’opzione militare. Un contesto regionale più stabile e cooperativo rispetto al passato è infatti per questi paesi condizione essenziale per sostenere i rispettivi ambiziosi piani nazionali di sviluppo e diversificazione dell’economia e per attrarre gli investimenti necessari a questo fine. La condanna dell’operazione israeliana manifestata oggi dai paesi del Golfo non sembra quindi essere di sola facciata.

Da parte iraniana colpiscono, come già in occasione dei due scontri diretti con Israele dell’anno scorso, l’apparente impreparazione di fronte ad una aggressione che non si può definire inattesa, e la vulnerabilità nei confronti sia delle operazioni militari israeliane contro siti militari e nucleari che delle infiltrazioni del Mossad nel cuore della capitale che hanno decapitato i vertici militari e scientifici del paese.

La strategia preferita da Teheran per ridurre le minacce esterne e garantire la sicurezza del paese in un contesto regionale e internazionale percepito come ostile è stata quella di perseguire la via diplomatica per giungere ad un accordo soddisfacente sulla questione nucleare. Lo sviluppo del programma nucleare negli ultimi anni poteva essere utile come strumento negoziale per giungere ad un accordo equilibrato, ma ha anche offerto a Israele un’argomentazione per attaccare.  

Ai fini di un accordo, il dialogo con Washington rimane imprescindibile. Nonostante il peso del passato, Teheran aveva ritenuto che, a differenza delle amministrazioni democratiche, Trump potesse offrire maggiori garanzie quanto al buon esito del negoziato, stanti il suo desiderio di affermarsi come deal maker e la possibilità di ottenere dal Congresso l’effettiva rimozione delle sanzioni.

Questa strategia andrà ora riesaminata alla luce degli sviluppi. Sarà difficile se non impossibile convincere Teheran che l’operazione militare israeliana sia avvenuta senza una intesa o quanto meno l’acquiescenza di Washington. Anche la costante ambiguità e contraddittorietà delle prese di posizione di vari esponenti dell’Amministrazione Trump rimane a testimoniare l’incongruenza dell’approccio perseguito negli ultimi mesi. Le dichiarazioni odierne di Trump lasciano addirittura intendere che l’opzione militare perseguita da Israele sarebbe funzionale a raggiungere un accordo nel quadro del negoziato con l’Iran (sic!). Anche se Trump ci ha abituato alle sue giravolte, riportare l’Iran al tavolo negoziale sembra oggi un’impresa che supera le capacità dialettiche dell’amministrazione americana. E comunque Teheran non cambierebbe sostanzialmente le sue richieste.

Nell’immediato non è chiaro come risponderà l’Iran sul piano militare. Varie opzioni sono già state sperimentate in passato, dalla risposta diretta su Israele, agli attacchi nel Golfo a quelli contro basi militari americane nella regione. Si tratta di opzioni in cui il rapporto fra costi e benefici non va necessariamente a vantaggio di Teheran.

Guardando oltre, tra le opzioni che il paese ha di fronte per garantire la propria sicurezza, una scelta a favore del nucleare non può più essere esclusa. L’uscita dal TNP e lo sviluppo di un programma nucleare militare rappresenterebbe una scelta gravida di rischi, ma non priva di una sua logica al fine di ristabilire la deterrenza nei confronti di Israele.

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