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I danni di chi è green senza “fare squadra”


Gli economisti di via Nazionale spiegano come i fondi art. 8 siano controproducenti se agiscono senza reale ingaggio. Mercoledì sarà approfondito il tema della ESG Identity basata sul coinvolgimento della propria comunità, investitori inclusi

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C’è ancora una lunghissima strada da percorrere per comprendere la relazione Esg tra finanza e aziende. Se il modello di valutazione Esg ha aperto la strada per una reale conoscenza tra i due emisferi, per contro questi restano tuttora incapaci di muoversi in piena sincronia. Piuttosto, mantengono un moto proprio che spesso porta il risultato complessivo dell’interazione lontano dalla via sostenibile generale. Lo dimostra un paper “firmato” dagli economisti di Bankitalia e pubblicato nei giorni scorsi, che evidenzia l’effetto distorto dell’allocazione dei fondi articolo 8 verso aziende a basso rischio green: la combinazione tra l’approccio dell’esclusione e le valutazioni della sostenibilità ex post (non prospettica), genera un effetto complessivo negativo in termini di sostenibilità. Questo fenomeno evidenzia l’importanza di superare il divestment, e di consolidare l’engagement tra aziende e investitori, nei due sensi. È vero che i fondi hanno necessità di approfondire, andando oltre la conoscenza degli impatti attuali. Per contro, le aziende devono iniziare a valorizzare il proprio impegno, la propria credibilità, la propria ESG Identity come valore futuro.

FARE SQUADRA CON LA FINANZA

Lo studio arriva con un timing perfetto per la decima edizione (mercoledì 18 giugno) della ESG Business Conference, in cui l’elemento di approfondimento sarà la capacità dell’azienda di “fare squadra” con l’Agorà, ovvero con il variegato mondo dei suoi stakeholder (registrati qui). Questo “fare squadra” sarà sempre più la variabile per dare credibilità alla propria ESG Identity. Un esempio chiaro riguarda proprio il rapporto con gli investitori. Emerge un paradosso. La ricerca di Banca d’Italia evidenzia come le scelte dei gestori si focalizzano ancora sulla sostenibilità “attuale”. Per opposto, i risultati di ESG.ICI 2025 evidenziano come le aziende stiano spingendo sui piani di Transizione, quindi, sulla progettazione della sostenibilità al futuro: appena il 7% delle quotate italiane dice di non avere un piano di transizione.

Possibile questa miopia degli investitori? Il punto è esattamente la scarsa conoscenza reciproca. Andando a vedere cosa le aziende rispondono sui propri azionisti Esg, la metà risponde di conoscerne la quota nel capitale, e il 19% il grado di commitment. Ma solo 2 aziende su 100 ammettono di conoscere l’identità Esg degli investitori.

LE RISULTANZE “BOOMERANG” DEL PAPER

Questi meccanismi di conoscenza superficiale generano l’effetto boomerang studiato dal report Sustainable Finance Regulation, Funds’ Portfolio Reallocation and Real Effects firmato da quattro economisti di Banca d’Italia (Francesco Columba, Andrea Fabiani, Raffaele Gallo, Giorgio Meucci). La ricerca è basata sulle classificazioni Sfdr: i fondi articolo 6 (non green), articolo 8 (light green, cioè meno convinti) e articolo 9 (dark green, cioè, molto impegnati). L’analisi evidenzia come, se gli articolo 9 sono poco impattanti a livello di sistema, nel senso che le proprie scelte di investimento esistevano prima della scelta dell’etichetta, un effetto tangibile lo provocano i fondi meno convinti, i cosiddetti light grrem. Questi spostano i capitali commettendo due leggerezze: scelgono in base all’esclusione, cioè tolgono dal proprio paniere di investimento le imprese di settori a maggiore rischio Esg; inoltre, riallocano i capitali sulla base della sostenibilità rendicontata, cioè i risultati ex post, e non sugli impegni di sostenibilità futura (ciò che l’azienda si ripromette di diventare). Il risultato è che «il disinvestimento delle imprese “brown” avviene indipendentemente dai loro impegni di sostenibilità» e finisce per pesare dal punto di vista finanziario, poiché «riduce i loro prezzi azionari. Questa riduzione è a sua volta associata a una minore spesa ambientale e a maggiori emissioni di carbonio». «I nostri risultati – concludono quindi gli autori – suggeriscono che il disinvestimento generalizzato da parte dei fondi Esg può involontariamente peggiorare la performance ambientale indebolendo gli incentivi delle imprese a investire nella sostenibilità».

BANKITALIA: NON EXPEDIT

È interessante, su questa base, la rifessione finale con cui Banca d’Italia chiude il “Rapporto annuale sugli investimenti sostenibili e sui rischi climatici” presentato a inizio giugno, e che istituzionalizza una posizione controcorrente dell’istituto. «La Banca – si legge – ritiene che assicurare una riduzione nel breve termine dell’impronta carbonica dei portafogli, in base all’attuale stato delle conoscenze, non sia necessariamente il modo corretto per perseguire gli obiettivi climatici di lungo periodo».

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L’approccio scelto da Banca d’Italia è molto più relazionale. «L’Istituto, pertanto, ha scelto per il momento di non esplicitare obiettivi di riduzione di breve e medio periodo e di continuare a studiare gli effetti delle scelte di investimento sui comportamenti delle aziende emittenti, a promuovere la diffusione delle informazioni necessarie a fronteggiare il cambiamento climatico e a operare scelte di investimento sostenibile».

Rifiutare le scorciatoie. Studiare le reazioni. Condividere le informazioni.

Ovvero, fare squadra.

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