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La trappola del regime change


Le forze armate israeliane hanno dichiarato “fronte di guerra primario” l’Iran. Gaza è stata declassata, “nella speranza di portare a casa gli ostaggi”. Che possa essere intesa come una buona notizia per loro e per i due milioni di palestinesi affamati nella gabbia della striscia, è opinabile. 

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Una cattiva notizia certa è che l’obiettivo di Benjamin Netanyahu nel più importate dei suoi numerosi fronti di guerra, è il cambio di regime a Teheran. Nel consueto intervento televisivo urbi et orbi, in particolare rivolto agli iraniani, il premier israeliano è stato esplicito: ha invitato alla rivolta popolare contro il governo, offrendo il suo aiuto. Il regime khomeinista controllato dal clero e da una pericolosa casta militare, è fra i più detestati al mondo. È al potere da quasi mezzo secolo: l’assenza di slancio riformista e, al contrario, la crescente brutalità di chi non ha altro da offrire al suo popolo, sono evidenti. 

Ma è una buona idea pensare a un “regime change”? Un obiettivo del genere è destinato a prolungare, non accelerare la guerra, ad accrescere e non diminuire l’instabilità regionale. Le reazioni sul web, la coraggiosa generazione dei giovani delle città, il cui anelito di libertà non è sopito, bastano per intravvedere i segni di una nuova rivoluzione? 

Ogni volta che agli iraniani è stata data la possibilità di votare, hanno scelto candidati riformisti o i più moderati fra quelli imposti dal regime. Quando arrivavano alla presidenza – Ali Ajbar Rafsanjani e Mohammed Khatami – il loro riformismo era vanificato dalla miopia occidentale. E quando gli iraniani si sentivano minacciati dall’Occidente, il regime riusciva a imporre brutali conservatori come Mohamed Ahmadinejad e Ebrahim Raisi. 

Bibi Netanyahu che si propone di contribuire al cambio di regime, ha attaccato l’Iran, lo sta bombardando da due giorni con morti anche fra i civili; il suo ministro della Difesa promette di radere al suolo Teheran. Se dopo 20 mesi di distruzione quasi totale di Gaza, Hamas ancora resiste, quanto tempo durerà la guerra contro un paese così vasto e quanta devastazione dovrà sopportare l’Iran? Quali sentimenti tutto questo sta saldando fra gli iraniani? 

Nel paese non ci sono solo i giovani, le ragazze che sfidano il chador, registi e intellettuali perseguitati. Conta ciò che sente il bazar, la potente classe dei commercianti; c’è il forte sentimento religioso delle categorie più povere. Al tempo della rivoluzione islamica del 1976/79 li chiamavano mustazafin, i senza scarpe: la fanteria della rivoluzione. Quei diseredati esistono ancora. 

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Un cambio di regime gli israeliani lo hanno realizzato in Libano: in poche settimane hanno decapitato i vertici di Hezbollah e in pochi mesi il Libano è finalmente riuscito ad avere un presidente e un premier. Ma l’Iran non è il Libano: esiste da millenni, non da decenni

Per Arabia Saudita, Emirati e i paesi della regione, cambio di regime è sinonimo di primavera araba: qualcuno perse il potere, alcuni hanno rischiato di perderlo, per tutti sono stati anni di guerre e rivoluzioni. A ottobre, quando gli iraniani avevano lanciato per la prima volta i missili, le difese contraeree giordane, saudite e degli Emirati avevano partecipato alla difesa d’Israele. L’altra notte no. 

A Washington forse nessuno ha ancora ricordato al presidente – e a Donald Trump non è venuto in mente – che “regime change” equivale a una bestemmia per la sua politica estera. Posto che in questa amministrazione esista una politica estera coerente. Cambio di regime è sinonimo di “palude di Washington”, di “guerre senza fine”, di “boots on the ground”, soldati americani sui campi di battaglia. Ricorda le costose guerre di George W. Bush in Afghanistan e Iraq. È dunque difficile che dopo aver elogiato la precisione dei bombardamenti israeliani, Donald Trump non abbia qualcosa da dire a Netanyahu e non abbia le stesse preoccupazioni degli alleati arabi del Golfo: moderati e soprattutto ricchi. 



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