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Ex Ilva, ecco l’Accordo di Programma


L’Accordo di Programma sul quale il governo vorrebbe raggiungere quanto prima un’intesa con il comune di Taranto e la Regione Puglia, sulle orme di quanto accaduto recentemente con Terni e Piombino, è una sorta di piano industriale sulla falsa riga di quelli rimasti sulla carta redatti anni addietro dalla multinazionale ArcelorMittal e dal governo Conte II nel pieno della crisi dei rapporti tra le parti nell’autunno del 2019. Senza arriva a scomodare gli altri piani redatti ancor prima da due tra i tanti ex commissari del siderurgico, come Enrico Bondi e Piero Gnudi.

Finanziamenti personali e aziendali

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Si tratta, come chiarito dal ministero delle Imprese, di un ‘Accordo di programma interistituzionale’, *procedura ben distinta dall’Accordo di programma ex art. 252-bis. Parliamo infatti, di due strumenti distinti, previsti da differenti disposizioni normative e finalizzati a obiettivi diversi.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso

Il primo interviene nella fase preliminare di un investimento ed è sottoscritto esclusivamente tra soggetti istituzionali ed enti locali, con l’obiettivo di assicurare un coordinamento efficace nell’ambito del rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per impianti di preminente interesse nazionale. Costituisce pertanto un atto propedeutico e di indirizzo, volto a garantire – nel rispetto degli interessi fondamentali della collettività – la coerenza tra politiche ambientali, pianificazione territoriale e sviluppo industriale. Il contenuto tecnico e gli indirizzi contenuti nell’accordo interistituzionale diventano parte integrante del procedimento di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA): chiunque assuma la titolarità del sito produttivo sarà tenuto al rispetto delle condizioni definite dalle istituzioni, coerenti con gli obiettivi di sostenibilità ambientale e transizione industriale.

Ben diversa, per natura e funzione, è la disciplina dell’Accordo di programma ai sensi dell’articolo 252-bis del medesimo decreto legislativo n. 152/2006. Questo strumento può essere attivato solo in una fase successiva e presuppone l’esistenza di un concreto progetto di riconversione o sviluppo industriale. L’Accordo di programma coinvolge il soggetto industriale titolare del progetto, oltre alle istituzioni nazionali e agli enti locali a vario titolo coinvolti, con l’obiettivo di coordinare gli aspetti produttivi, ambientali e occupazionali, attraverso un cronoprogramma vincolante e impegni formalizzati da parte di tutti i soggetti sottoscrittori.

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Un piano che ipotizza scenari produttivi differenti da qui ai prossimi 14 anni (sino al 2039), che vedono un graduale passaggio per l’ex Ilva da una produzione totalmente a carbone ad una ibrida con l’installazione di un primo forno elettrico, sino ad arrivare ad un siderurgico totalmente decabronizzato.

Ecco perché nel testo mancano i riferimenti più importanti: ovvero chi finanzierà tutto questo e in quali modalità e quantità (non fosse altro perché i piani di cui sopra, redatti già molti anni fa, prevedevano cifre che oscillavano tra i 3,4 e i 5 miliardi di euro), come si calibrerà un eventuale piano occupazionale che tutto lascia pensare sarà affiancato da un nuovo piano di incentivo all’esodo volontario, e se si riusciranno ad ottenere tutte le autorizzazioni ambientali necessarie. Senza dimenticare le migliaia di lavoratori impiegati nelle aziende dell’indotto (che lavoreranno sempre meno) e gli oltre 1600 lavoratori attualmente collocati nel limbo del bacino della società Ilva in Amministrazione Straordinaria (ancora la proprietaria di tutti gli impianti presenti in Italia).

I lavoratori del siderurgico tarantino in una delle tante manifestazioni degli ultimi mesi

Come detto però, siamo ancora nel campo delle ipotesi, delle tesi abbozzate, delle proposte. La realtà attuale è, se possibile, ancora piano complicata rispetto al passato. C’è una procedura di riesame dell’Autorizzazione Integrata Ambientale da concludere positivamente, dopo che lo scorso 4 giugno è stato redatto un secondo parere conclusivo istruttorio (ancora top secret), che sarebbe una revisione del primo approdato in Conferenza dei Servizi lo scorso 2 aprile: a scanso di equivoci infatti, è bene precisare che la Conferenza dei Servizi ha il potere di approvare il piano con relative modifiche, che andrebbe ad annullare e sostituire il precedente.

Secondo quanto trapelato sin qui, la proposta di parere istruttorio conclusivo di rinnovo dell’Autorizzazione integrata ambientale dell’ex Ilva di Taranto conterebbe una ulteriore riduzione dei valori limite, nonché una riduzione dei flussi di massa annuali in linea con la Valutazione di impatto sanitario. Inoltre, le prescrizioni relative alle giornate di Wind day risulterebbero superate, fermo restando l’obbligo per il gestore di garantire l’attenta e scrupolosa attuazione delle procedure gestionali volte al contenimento delle emissioni diffuse in atmosfera. Al fine di prevenire il rischio di spolveramento e il coinvolgimento dello specchio acqueo e i livelli produttivi attuali dello stabilimento e tenuto conto che ad oggi non sono state segnalate specifiche criticità ambientali da parte dell’Autorità controllo, la sospensione dell’attività di carico e scarico sarebbe confermata, come misura cautelativa, in caso di venti a 20 metri secondo in conformità a quanto già indicato nelle precedenti autorizzazioni.

Certo, gioverebbe e non poco che a stretto giro sul sito del ministero dell’Ambiente, nella sezione apposita dedicata al siderurgico tarantino, si procedesse alla pubblicazione dei relativi documenti e dei verbali redatti durante le riunioni della Conferenza dei Servizi, altrimenti si continuerebbe ad eludere il dovere di trasparenza ed a ledere il diritto di esprimersi per chiunque ne abbia titolo e interesse.

C’è poi da fare i conti con l’operato della magistratura, aspetto tutt’altro che secondario. Dall’ultimo sequestro operato dalla procura di Taranto, passato per quella di Milano che dovrebbe esprimersi nei prossimi giorni o nelle prossime settimane sulla causa intentata da un gruppo di cittadini (sulla quale si è espressa anche la Corte Europea) che potrebbe decidere per lo stop dell’area a caldo, senza tralasciare la Commissione Europea che ha aperto nel 2013 una procedura d’infrazione mai conclusa e che continua da lontano a monitorare quanto accade in Italia attorno al siderurgico tarantino. 

Microcredito

per le aziende

 

In questo scenario già di per sé alquanto complicato, è in corso una trattativa di vendita degli asset industriali del gruppo Acciaierie d’Italia di cui si sa molto poco. E che certamente non potrà essere portata a conclusione sino a quando non verranno sciolti in maniera chiara e definitiva i nodi di cui sopra.

L’ultimo incontro sull’Ex Ilva a Palazzo Chigi lo scorso 9 giugno

Tornando all’Accordo di Programma, è previsto che sino a tutto il 2026 il siderurgico debba marciare con tre altiforni (4 batterie di forni a coke, 2 linee di agglomerazione, 2 acciaierie ad ossigeno) per una produzione pari a 6 milioni di tonnellate annue. Uno scenario del tutto irrealistico, che non a caso è chiamato ‘ipotesi 0’, a testimoniare come anche solo pensare che nel breve volgere di qualche mese l’altoforno 1 (attualmente sotto sequestro senza facoltà d’uso dopo il grave incidente dello scorso 7 maggio) e l’altoforno 2 possano tornare in funzione (quando per entrambi è prevista la sostituzione del crogiolo) è pura fantasia. 

Non è un caso se nell’Accordo di Programma, lo scenario più verosimile sembrerebbe essere quello targato 2026-2030: quando è prevista ’introduzione di un nuovo forno elettrico e la fermata di un altoforno (quale non è specificato), mantenendo invariata la produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, di cui 4 milioni di tonnellate con ciclo integrale (con 2 altiforni, 4 batterie di forni a coke, 2 linee di agglomerazione, 1 acciaieria ad ossigeno) e 2 milioni di tonnellate con un primo impianto EAF (forno ad arco elettrico), alimentato dal preridotto prodotto tramite un primo impianto di DRI, dotato di sistema di cattura e stoccaggio della CO2. 

Impianto di produzione del preridotto che al momento è stato soltanto progettato dalla società DRI d’Italia, controllata al 100% da Invitalia, dopo l’annullamento del bando di gara che aveva visto vincere la società Paul Wurth a discapito della Danieli. Terminata la vicenda con la sentenza del Consiglio di Stato a favore del gruppo italiano, nell’ultimo decreto approvato nei giorni scorsi dal governo è previsto l’ingresso di privati nella società Dri d’Italia: come questo dovrà e potrà avvenire non è però ancora chiaro. 

Guardando ancora più lontano nel tempo, nell’Accordo di Programma si prevede che dal 2030 al 2034 verrà introdotto un secondo forno elettrico e contestualmente si procederà alla progressiva fermata di un secondo altoforno, mantenendo invariata la produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, di cui 2 milioni di tonnellate con ciclo integrale (con 1 altoforno, 3 batterie di forni a coke, 1 linea di agglomerazione, 1 acciaieria ad ossigeno) e 2 milioni di tonnellate tramite 2 impianti Eaf, alimentati da preridotto prodotto con 2 impianti Dri dotati di sistema di cattura e stoccaggio della CO2. Dunque, nel giro di altri quattro anni, verrebbe costruito un secondo forno elettrico e un secondo impianto di produzione del preridotto.

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Agricoltura

 

L’ultimo arco temporale all’interno dell’Accordo di Programma va dal 2034 al 2039: in quel quinquennio è prevista la fermata dell’ultimo altoforno rimasto in funzione e la contestuale introduzione di un terzo forno elettrico, mantenendo invariata la produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, che alla fine del processo sarà realizzata con un ciclo composto da 3 impianti Eaf alimentati da preridotto prodotto tramite 3 impianti DRI dotati di sistema di cattura e stoccaggio della CO2.

Nel piano abbozzato dall’Accordo di Programma è previsto che le aree in cui dovranno sorgere i forni elettrici e gli impianti di produzione del preridotto saranno quelle attualmente occupate dagli impianti di agglomerazione e dalle due acciaierie, che resterebbero in funzione per garantire la continuità operativa degli altiforni fino alla loro graduale dismissione.

Nella bozza dell’Accordo viene poi specificato che il processo di decarbonizzazione degli impianti di Taranto per realizzarsi richiederà necessariamente ingenti quantitativi di gas naturale sia per la produzione dell’energia elettrica necessaria a soddisfare l’aumentato del fabbisogno della fabbrica, sia per alimentare gli impianti che si occuperanno della produzione di del preridotto. Con l’avanzamento delle fasi di trasformazione del ciclo di produzione, crescerà il fabbisogno energia elettrica e, contestualmente ci sarà una progressiva diminuzione della disponibilità di recupero dei gas siderurgici e del vapore di recupero, che sino ad oggi sono stati utilizzati per rendere almeno in parte autonoma dal punto di vista energetico l’ex Ilva. 

L’aumento dell’utilizzo di gas naturale nei forni elettrici servirà per assicurare la disponibilità di energia utile a mantenere in funzione l’acciaieria con produzione annua di acciaio costante e livelli occupazionali invariati, è previsto ancora nel piano sin qui abbozzato. Per questo servirà l’installazione nel porto di Taranto di una unità galleggiante di stoccaggio e rigassificazione (Fsru) al fine di fornire il necessario approvvigionamento di gas metano sia ai nuovi impianti per la produzione del preridotto (Dri) sia alla centrale termoelettrica AdI Energia (le ex centrali una volta dell’Edison). 

Per quanto concerne lo standard ambientale e di sicurezza del terminale di rigassificazione Fsru, è previsto che quest’ultimo dovrà essere allineato a quanto già autorizzato nelle AIA per Fsru di Piombino e Ravenna, tenendo conto anche degli eventuali miglioramenti previsti per questa tecnologia. Per migliorare la sicurezza della disponibilità di gas naturale, la Fsru verrà posizionata in un punto collegato alle infrastrutture necessarie per approvvigionare gli impianti di Taranto. La Fsru, della portata lorda di 70mila tonnellate e 275 metri di lunghezza, avrà una capacità annua di rigassificazione di circa 1 miliardo di metri cubi, opererà dal Molo Polisettoriale del porto di Taranto e sarà collegata agli impianti siderurgici attraverso un nuovo gasdotto lungo circa 9 km, che avrà quattro punti di connessione.

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Inoltre, è previsto che la misura di compensazione territoriale aggiuntiva del 3% sul valore del gas trasportato dagli impianti e alle infrastrutture del gas nel territorio pugliese, stabilita con legge della Regione Puglia 10 novembre 2023, n. 27, non si applicherà al gas fornito dalla nave rigassificatrice che sarà allocata presso il porto di Taranto in quanto, viene specificato, i relativi volumi di gas sono funzionali al processo di decarbonizzazione degli stabilimenti ex Ilva, e dunque a un obiettivo ambientale che non richiede compensazioni e che anzi andrebbe incentivato.

Nella bozze del documento viene inoltre ricordato come l’utilizzo di acqua sia fondamentale per il funzionamento dell’acciaieria (con l’acqua proveniente anche dai due fiumi Tara e Sinni). Per evitare che l’aumento degli eventi di siccità o la scarsezza di approvvigionamento idrico legato alla qualità dell’acqua attualmente disponibile possa compromettere la continuità dell’approvvigionamento idrico, impattando negativamente sulla produzione di acciaio, è prevista l’istallazione nel porto di Taranto una piattaforma galleggiante attrezzata con impianti per la desalinizzazione dell’acqua di mare. L’infrastruttura richiederà l’istallazione di una condotta idrica della lunghezza di circa 9 km con il rispettivo allacciamento alla rete per la fornitura di energia al sistema di desalinizzazione. Si è optato per una soluzione galleggiante in sostituzione di un impianto a terra per mancanza di spazio e perché la soluzione galleggiante permette flessibilità di spostamento in caso di necessità.

L’impianto di desalinizzazione dovrà servire alla produzione di acque industriali e avrà la capacità produttiva di 110 mila metri cubi al giorno. Con la finalità di ridurre i costi di fornitura di acqua attualmente sostenuti, inclusivi del potenziale costo aggiuntivo per l’utilizzo dell’acqua del Sinni (+0,4 euro per metro cubo) dovuto alla tassa ambientale.

La sensazione è che non sarà semplicissimo addivenire ad un’intesa a stretto giro. Troppe le parti interessate, troppi i soggetti coinvolti, molto i passaggi burocratici per intese di questo tipo che nelle normalità dei casi hanno bisogno di almeno un anno di confronti abbondanti. A meno che l’idea non sia quella di sottoscrivere un accordo per poi andarlo a ritoccare e rivedere qualora lo scenario dovesse drasticamente mutare nelle prossime settimane. 

(leggi tutti gli articoli sull’ex Ilva https://www.corriereditaranto.it/?s=ilva&submit=Go)

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