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Cambio e dazi, mix amaro per la Ue


In un mondo in cui gli scenari peggiori si susseguono come onde in tempesta, la soglia del dolore per le imprese europee si alza sempre di più. Lo abbiamo visto ancora una volta leggendo le reazioni delle aziende del Vecchio Continente al recente apprezzamento dell’euro contro il dollaro. La moneta unica ha toccato quota 1,16 dollari, un balzo del 15% da inizio anno, ben oltre le previsioni che le aziende avevano prudentemente inserito nei loro budget per il 2025. È una dinamica che richiama alla mente il primo mandato di Trump, quando l’euro schizzò da 1,04 a 1,20 dollari in un battito di ciglia. Alcuni tesorieri aziendali non escludono che quest’anno il cambio possa persino sfondare il tetto di 1,20 dollari.

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Questo shock valutario si somma, come una beffa, alla spada di Damocle delle tariffe commerciali. Le trattative per un accordo commerciale tra Europa e Stati Uniti sono ancora in alto mare e, con ogni probabilità, si protrarranno oltre la scadenza del 9 luglio, data la loro complessità. Una cosa è certa: le tariffe arriveranno. Il nostro scenario di base prevede un’imposizione generalizzata del 10%, a cui si aggiungeranno le temute tariffe della Sezione 232 su auto, acciaio e alluminio. Un mix che rischia di colpire duro.

Per valutare l’impatto complessivo, dobbiamo considerare la combinazione letale di tariffe e rivalutazione dell’euro. Un euro più forte significa che i ricavi generati in dollari valgono meno una volta convertiti. L’effetto delle tariffe, invece, dipenderà da chi ne pagherà il prezzo: i consumatori, attraverso un aumento dei prezzi, o i produttori, con margini di profitto ridotti all’osso. È una scelta tra la padella e la brace.

I tesorieri aziendali stanno correndo ai ripari, cercando di mitigare le perdite valutarie attraverso strategie di hedging. Ogni settore ha i suoi orizzonti temporali: il retail si copre per periodi di sei-nove mesi, mentre l’aerospaziale guarda a orizzonti ben più lunghi, dai quattro ai sette anni. Le strategie variano, ma una cosa è chiara: l’hedging può tamponare le fluttuazioni a breve termine, ma non protegge dalle conseguenze strutturali di un cambiamento nelle relazioni commerciali globali o da un apprezzamento persistente dell’euro. È come mettere un cerotto su una ferita che richiede punti.

In questo contesto, la tendenza verso la produzione locale, già accelerata dalla pandemia, sta diventando una strada obbligata per molte aziende europee. Produrre vicino ai consumatori riduce i rischi legati alla supply chain, come abbiamo imparato a caro prezzo durante i lockdown. Le banche europee sono pronte a sostenere le imprese in questo passaggio, finanziando la delocalizzazione della produzione negli Stati Uniti. Ma c’è un ostacolo che si staglia all’orizzonte: la difficoltà di trovare manodopera locale a salari competitivi. Nonostante gli investimenti promessi dalle aziende europee, questo collo di bottiglia non si risolverà dall’oggi al domani.

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Oggi, il vero problema operativo non è tanto la volatilità del cambio, quanto questa carenza di talenti a costi sostenibili. Tuttavia, non dobbiamo sottovalutare l’effetto combinato di tariffe anche nella loro versione più “morbida” e di un euro forte.

Questa tempesta perfetta contribuirà a ridisegnare gli equilibri globali più di quanto le tariffe da sole possano fare. Le aziende europee, strette tra un cambio sfavorevole e barriere commerciali, si trovano a navigare in acque insidiose. La resilienza sarà la loro unica ancora di salvezza, ma a che costo?



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