Un recente studio pubblicato dall’agenzia Adnkronos ha evidenziato che le aziende italiane che non si preparano adeguatamente alla transizione verde rischiano di vedere i propri utili ridursi fino al 25% nei prossimi cinque anni. Lo studio è in linea con le indicazioni del World Economic Forum secondo cui i rischi ambientali (come la perdita di biodiversità o l’instabilità climatica) sono tra le minacce più gravi per l’economia globale nei prossimi dieci anni. Questi dati invitano a riflettere anche su come aziende, famiglie e mercati stiano affrontando (o eludendo) la sfida della transizione green. Una recente analisi di Mediobanca indica che l’82,5% delle imprese dichiara di aver avviato un’attività di sensibilizzazione rispetto alle tematiche di sostenibilità e che il 68% sta adottando nuovi modelli di business, processi e prodotti per adeguarsi alle nuove normative. Il dato, positivo, indica però che le aziende si stanno trasformando non perché vogliono, ma perché devono, con il rischio di vivere il tema come un ulteriore adempimento amministrativo. Va anche evidenziato che queste nuove norme portano inevitabilmente nuovi costi, spesso rilevanti. Costi questi che non tutte le aziende sono in grado di sostenere o di addebitare al cliente (con il rischio di vedersi ridotta la domanda di prodotti/servizi). Inoltre, l’accettabilità delle nuove norme e dei nuovi costi è resa ancora più difficile dalla complessa situazione economica e politica globale, dove altre grandi potenze mondiali hanno adottato approcci profondamente diversi.
Da qui, stanno emergendo due principali linee di pensiero così estremizzabili. Una prima linea ritiene corretto privilegiare la tutela ambientale per connotare gli Stati Europei come “green”, anche a costo di sacrifici economici attuali, confidando in benefici futuri e in un nuovo equilibrio di mercato. L’altra linea di pensiero suggerisce invece un approccio più cauto e attento allo sviluppo economico generale (specie in questo momento), al non gravare le aziende di ulteriori oneri e adempimenti gravosi, anche al costo di un minor beneficio ambientale o di tempi più lunghi per conseguire gli obiettivi green desiderati. Con riguardo ai consumatori, il 2025 si sta affermando come il “No buy year”, fenomeno sviluppatosi sui social che sta invitando i consumatori a cambiare abitudini di consumo e spendere meno per salvare l’ambiente. La riduzione degli acquisti registrata non è però legata solo a motivi green. Recenti studi di vari osservatori indicano che oltre il 70% dei consumatori italiani ha cambiato comportamento (in genere ridotto gli acquisti) dopo i recenti aumenti di prezzo. Al contempo, oltre il 60% degli acquirenti è interessato ad acquistare prodotti sostenibili anche a costo leggermente maggiore (Eurobarometro 2023).
È un segnale interessante, ma indica che il green “a prescindere” interessa un numero limitato di consumatori e che esiste un divario tra intenzioni dichiarate e comportamenti reali, spesso dettati dal prezzo. La domanda da porsi è quindi cosa siamo tutti noi disposti a fare per la “green economy”. O, con termini più schietti, quanto siamo disposti pagare per averla? La sostenibliità porta con sé inevitabilmente dei nuovi costi certi che tendenzialmente nessuno vuole pagare, né le imprese, né i consumatori. Si tratta quindi di comprendere come gestire la tensione esistente tra sviluppo economico e tutela dell’ambiente. E questo richiede un’azione congiunta e condivisa tra i vari attori economici, ossia policy makers, imprese e consumatori. Il mercato può essere parte della soluzione, ma solo se guidato da regole chiare, trasparenza e responsabilità condivisa. Occorre quindi immaginare il futuro, sapendo che la transizione green è necessaria e chiedendoci cosa siamo realmente disposti a fare. E’ facile parlare di sostenibilità: ora però è tempo di fare.
*Professore ordinario di Economia aziendale presso l’Università Politecnica delle Marche
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