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Il doppio ingorgo fiscale del mese di giugno: quando finiamo di lavorare per lo Stato


Delle tasse ci siamo liberati il 13 giugno: è il giorno in cui, fatti i calcoli, abbiamo smesso di lavorare per dare i soldi allo Stato e iniziato a farlo per guadagnarci la paga. Insomma, era la data della cosiddetta “liberazione fiscale”. Ma c’è poco da festeggiare: già tre giorni dopo ci siamo ritrovati nel bel mezzo di un gigantesco “ingorgo fiscale”, il primo dell’anno, perché entro quel giorno i contribuenti italiani erano chiamati a versare all’erario 42,3 miliardi di euro. Perché? Tasse, tasse e ancora tasse.

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In realtà, i versamenti da eseguire erano ben più copiosi, come evidenzia una ricerca del Centro studi della Cgia di Mestre, cioè l’Associazione artigiani piccole e medie imprese. Già, perché quella cifra di 42,3 miliardi di euro da versare non includeva il valore economico dei contributi previdenziali a carico delle imprese e dei lavoratori autonomi. Stiamo parlando di soggetti che soffrono di una cronica carenza di liquidità e questo riguarda soprattutto le piccole aziende, che tremano di fronte alle scadenze del 16 e del 30 giugno.

Nella prima scadenza i contribuenti erano chiamati a versare all’erario almeno 34 miliardi di euro, cioè l’80 per cento del gettito totale previsto per il 2025. Ma che tasse sono? La Cgia scorpora il dato, e scopre che a pesare sono soprattutto le ritenute Irpef sui lavoratori dipendenti e sui collaboratori familiari, pari a 14,4 miliardi di euro. Poi c’erano l’Iva (il 13,2 miliardi di euro), l’Imu (5 miliardi) e le ritenute Irpef per i lavoratori autonomi.

Certo, le ritenute Irpef ai propri dipendenti e l’Iva sono “partite di giro”: le aziende sono sostituti d’imposta per i propri lavoratori e l’Iva è già incassata in precedenza. Resta comunque il problema della liquidità, considerato oltretutto che le banche sono sempre meno portate a concedere il credito, il che sarebbe poi il motivo principale della loro esistenza. Ma la logica è ben diversa, considerato che gli istituti di credito non vogliono più rischiare di avere “sofferenze”, cioè rate di mutui e di prestiti non onorate. E sono sempre di più.

In realtà, non c’è niente di speciale: giugno e novembre sono da sempre i mesi delle tasse. E se non pochi hanno perso il sonno per trovare i soldi da pagare per la scadenza del 16 giugno, tanti altri sono alle prese con la sofferenza per onorare anche la scadenza del 30 giugno, tra le più importanti dell’anno. Questo, malgrado il Governo abbia rinviato al 21 luglio (senza penalizzazioni) il pagamento di Ires, Irap, Irpef e addizionali Irpef ai forfetari e alle partite Iva soggette agli Isa, gli Indici sintetici di affidabilità. Sommando tutto, però, la Cgia ha stimato in 17 miliardi di euro la somma complessiva che l’erario incassa il 30 giugno.

Che dire? Che siamo tra i più tartassati nell’Unione europea, a fronte di servizi pubblici sempre meno gratuiti e sempre più scadenti nella qualità. Scorrendo i dati del 2024, vediamo che in Danimarca la pressione fiscale era al 45,4 per cento del Pil, in Francia al 45,2, in Belgio al 45,1, in Austria al 44,8 e in Lussemburgo al 43. L’Italia era sesta in classifica, con un tasso del 42,6 per cento del Prodotto interno lordo.

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Tra i nostri principali competitor commerciali, solo la Francia era più tartassata, mentre tutti gli altri avevano un tasso nettamente inferiore al nostro: in Germania il 40,8 per cento del Pil (1,8 in meno rispetto a noi), in Spagna il 37,2 (5,4 in meno). Il tasso medio dell’Unione europea è invece al 40,4 per cento del Pil. L’Italia versa il 2,2 per cento in più.

Fosse solo una questione di soldi: in Italia, l’oppressione fiscale rende perfino difficile (lo fa anche il Portogallo) pagare le tasse, già più elevate che altrove. Non è una rabbiosa valutazione da contribuente, bensì ciò che risulta dalle statistiche della Banca Mondiale. Secondo quei dati, gli imprenditori italiani dedicano 30 giorni all’anno (pari a 238 ore lavorative) a raccogliere le informazioni che sono necessarie per calcolare quanto devono versare di imposte, completare le dichiarazioni dei redditi e presentarle all’amministrazione finanziaria, pagare online o allo sportello. Per renderci conto di quanto sia esagerato questo tempo, basta guardare alla Francia: la burocrazia legata alle imposte porta via agli imprenditori 17 giorni, pari a 139 ore. In Spagna un giorno in più, in Germania 27, contro una media nell’area euro di 18 giorni. Per questa classifica sono state considerate le medie imprese a responsabilità limitata, al secondo anno di vita e con circa sessanta addetti.

Da notare che in Italia l’evasione fiscale e tributaria è in calo. La Cgia calcola che l’Agenzia delle entrate abbia recuperato dalla lotta all’evasione 33,4 miliardi di euro nel 2024: è il record di tutti i tempi. E che l’evasione sia in calo lo dice lo stesso ministero dell’Economia e delle Finanze (il Mef): afferma che se nel 2017 si evadevano 108,4 miliardi di euro, nel 2021 (ultimo anno disponibile) è scesa a 82,4 miliardi, di cui 72 di mancato gettito tributario e 10,4 di evasione contributiva. Per gli evasori la vita diventa sempre più difficile, ma mai quanto quella di chi è tassato alla fonte e si accolla anche l’evasione degli altri.

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