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La Cina è la superpotenza mondiale del mercato dei droni


A Shenzhen, in Cina, i cittadini hanno imparato a convivere con i droni che guardano tutti dall’alto. Chi attraversa la città viene visto da un drone, chi ordina cibo da asporto se lo vede consegnato da un drone, chi salta la scuola per evitare le interrogazioni più difficili viene scoperto da un drone. È la “città del cielo”, e non poteva che essere proprio Shenzhen, il cuore della Silicon Valley cinese.

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La Cina ha costruito un’industria imponente e capillare attorno ai droni, sostenuta da anni di politiche favorevoli decise dal Partito Comunista Cinese. «Per anni, il governo ha dato un grande aiuto alla produzione di droni sotto forma di agevolazioni fiscali, sussidi e piani industriali», ha scritto il Financial Times. L’articolo di William Langley spiega come Pechino stia sfruttando la capacità produttiva e di ricerca per rendere i droni un asset strategico nell’economia civile: consegne, agricoltura, sanità, sicurezza, puntando a prendersi la fetta più grossa di un mercato che arriverà a valere quasi cinquecento miliardi di dollari entro il 2035.

Oggi la Cina produce tra il settanta e l’ottanta per cento di tutti i droni commerciali del mondo, secondo la società di analisi Drone Industry Insights. A Shenzhen ha sede Dji, il più grande produttore globale del settore, oltre a migliaia di fornitori specializzati che rendono la filiera cinese efficiente e a basso costo. Ma il vantaggio competitivo della Cina nel settore dei droni non è dovuto solo a una produzione colossale: è un primato stratificato, radicato anche nell’innovazione e nel know how dei velivoli di bassa quota (cioè sotto i mille metri). Secondo uno studio dello studio legale londinese Mathys & Squire, il settantanove per cento dei brevetti globali sui droni registrati nel 2024 proviene dalla Cina. E non a caso lo scorso anno Pechino ha istituito un Dipartimento per lo Sviluppo dell’Economia a Bassa Quota – un dipartimento con competenze molto specifiche, primo sintomo delle ambizioni del governo di Xi Jinping in questo settore.

Sono numeri totalizzanti, quelli cinesi, a maggior ragione in un campo in cui le applicazioni civili si stanno moltiplicando anno dopo anno. Circa un terzo dei droni industriali cinesi viene usato in agricoltura o silvicoltura, un altro venti per cento per rilievi geografici, e il resto per sicurezza, monitoraggio, incendi e altre emergenze, secondo dati 2022 del Guanyan Tianxia Data Center.

Ma il Financial Times spiega che anche se i produttori di droni sono sempre più alla ricerca di clienti commerciali – perché è lì che si intravedono i maggior margini di crescita – finora la domanda è stata trainata dal governo e dall’esercito, e probabilmente sarà così ancora per un bel po’ di tempo. L’esercito resta ancora il cliente principale, come hanno spiegato diverse aziende alla Unmanned Aerial Systems Expo, la più grande fiera cinese dedicata ai droni commerciali, tenutasi a maggio.

Non è un dettaglio marginale. Negli ultimi tre anni e mezzo, la guerra in Ucraina ha mostrato in modo inequivocabile come i droni abbiano trasformato i conflitti moderni. Non si torna più indietro, dalle operazioni di aiuto alla fanteria alle missioni di sorveglianza, dalla logistica agli attacchi diretti, i droni sono diventati parte integrante della guerra contemporanea. In questo contesto globale di mutamento tecnologico, il vantaggio competitivo della Cina potrebbe tradursi anche sul campo militare, almeno per quanto riguarda la parte legata ai droni. Perché dietro il boom commerciale, si muove una strategia più ampia e ambiziosa: la fusione tra innovazione civile e capacità militari. Lo spiega un’analisi di Defense One, che parla di «una delle applicazioni più concrete del concetto cinese di fusione civile-militare» nel settore dei droni.

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Il principio è semplice. Le tecnologie sviluppate da aziende civili possono facilmente essere integrate dalle forze armate, con benefici reciproci per entrambe le parti. L’esempio più evidente sono i droni sviluppati per l’agricoltura o la logistica, poi adattati per missioni di sorveglianza o combattimento. «Il Pla (Esercito Popolare di Liberazione) sta usando massicciamente i droni in aree strategiche, in particolare nello Stretto di Taiwan. Le esercitazioni del 2022, 2023, 2024 e aprile 2025 hanno incluso sciami di Uav, droni di sorveglianza a lungo raggio, e nuovi sistemi di “mothership warfare”, ovvero velivoli madre che rilasciano sciami coordinati», si legge nell’articolo di Defense One. In Ucraina i droni piccoli, economici e usati in sciami numerosi hanno mostrato un grande potenziale militare, soprattutto per la capacità di colpire obiettivi sensibili. La Cina ha fatto sua questa lezione e l’ha applicata, portandola al livello successivo. La parola chiave in questo caso è automazione: «Si passa da un modello in cui un drone è controllato da un operatore a un altro in cui un solo operatore può gestire un intero sciame», scrive ancora Defense One. Questo è il futuro della guerra algoritmica, e la Cina lo sta già testando sul campo.

Il vantaggio competitivo pianificato e realizzato dalla Cina negli ultimi anni al momento è ancora nell’uso civile, dovuto a una produzione industriale senza rivali, un sistema di ricerca e sviluppo all’avanguardia e enormi investimenti pubblici strategici e mirati. A questo però sta affiancando la sinergia tra applicazioni civili e militari. E questo, per il futuro delle contese geopolitiche, che siano in Estremo Oriente, nel Sud-Est asiatico, nell’Artico o altrove, è un messaggio significativo che Pechino manda a tutto il mondo.



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