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Investire nella formazione conviene: così si allevano i talenti


Si parla continuamente di digital skill shortage come del fenomeno per cui non si riescono a trovare competenze digitali appropriate per le posizioni aperte nelle organizzazioni pubbliche e private che si approssimano alla trasformazione digitale.

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Ma risolvere questo apparente “dilemma” non è solo legato al calo demografico o alla crisi delle discipline STEM o all’offerta formativa di scuole e università o agli sforzi di reskilling da parte di scuole, università, centri di formazione.

Anche le aziende hanno la loro responsabilità sia per la formazione continua dei propri dipendenti, al fine di mantenerne e aumentarne le skill in proporzione alla trasformazione del business, sia per saper ricercare, attrarre e poi gestire i talenti tanto da invogliarli a rimanere.

Tutto ciò per governare tecnologie e processi innovativi e quindi restare competitivi sul mercato. Dall’altra parte le nuove leve che si affacciano sul mercato del lavoro o le risorse “senior” che propongono la propria professionalità sono chiamati a hard e soft skill qualitativamente sempre più elevate.

Entrambe le categorie di risorse, tuttavia, mostrano aspettative che si sono evolute nel tempo e che hanno cambiato e trasformato l’orientamento verso il lavoro.

Un cambio avvenuto già con il COVID-19, con progressi significativi sui temi delle modalità e condizioni di lavoro, il work life balance e la prossimità al luogo di lavoro: tutte esigenze da ascoltare attentamente senza vanificare i progressi compiuti a beneficio di tutte le parti.

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Considerare la forza lavoro e le competenze umane come un costo e problema da risolvere, fino ad arrivare alla sostituzione con sistemi di AI sembra una tendenza che suona come espediente di breve periodo, ma che potrebbe risultare poco lungimirante e/o di qualità limitata.

Dell’importanza legata alla formazione, alle competenze digitali e del ruolo che possono giocare per supportare la competitività aziendale, abbiamo parlato con Roberta Morici, Business Unit Director – Education, ed Enrico Frumento, Cybersecurity Research Lead del Cefriel, l’istituto che ha recentemente pubblicato il white paper dal titolo “Sviluppare competenze digitali per l’innovazione”.

La questione dello skill shortage nelle competenze digitali legate a Cyber security e AI

Per contribuire alla risoluzione dello skill shortage nelle competenze digitali la prima azione e la più ovvia sembrerebbe quella di investire in formazione specialistica e continua per i propri dipendenti, ma gli esperti interpellati ci spiegano che “dal nostro punto di osservazione, stiamo notando un andamento costante degli investimenti in formazione da parte delle aziende. Ci si aspetterebbe un aumento di questi investimenti, ma purtroppo sembra non accadere. Sappiamo che in Italia si investe storicamente meno in formazione rispetto ad altri Paesi europei, soprattutto nella formazione continua degli adulti. Le ragioni sono molteplici. Una delle principali è culturale: la formazione viene spesso vista come un costo, più che come un investimento strategico. C’è ancora una scarsa consapevolezza del legame tra competenze e competitività”.

In larga parte queste difficoltà sono vissute nelle PMI che però sono la maggior parte delle imprese italiane: “Il nostro tessuto imprenditoriale è composto in larga parte da piccole imprese, che faticano a pianificare percorsi strutturati di sviluppo delle competenze. Mancano a volte le competenze interne per progettare la formazione, e l’accesso a fondi pubblici è oggettivamente troppo complesso“.

Ma il tema va visto che dal punto di vista dei lavoratori e su questo fronte gli esperti spiegano che “anche i lavoratori stessi, in certi contesti, non percepiscono la formazione come un diritto o una leva di crescita professionale, ma come un obbligo. Scontiamo anche il fatto che la formazione obbligatoria spesso è di bassa qualità, e in questo modo si è creata una barriera alla fruizione di formazione”.

Una scarsa qualità formativa che ha danneggiato proprio l’ambito della cyber security: “Le persone pensano di essere preparate perché hanno seguito i corsi obbligatori sulla normativa, ma la cyber security è molto più delle norme, è fatta di comportamenti quotidiani di ‘cyber igiene’ che vanno appresi e praticati”.

Avviare un cambio di passo

“Per aiutare un cambio di passo” suggeriscono gli esperti “servono leve sia culturali che strutturali”.

La ricetta di Morici e Frumento passa per tre leve: “Dal punto di vista culturale, bisogna promuovere una visione della formazione come strumento di adattamento e innovazione continua. Le aziende più evolute, che investono regolarmente in upskilling e reskilling, sono anche quelle più capaci di affrontare le trasformazioni tecnologiche e di mercato”.

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Il secondo passo è strutturale: “da questo punto di vista sarebbe utile semplificare l’accesso ai finanziamenti, ma anche supportare le aziende, soprattutto le PMI, con strumenti concreti, come ad esempio cataloghi formativi strutturati sulle esigenze dei diversi target, dai tecnici ai manager, oppure servizi di consulenza per costruire piani formativi su misura”.

Ma è su un terzo punto chiave che i due esperti fanno quadrato: “La leva chiave sta nel ruolo del management: quando i vertici aziendali credono nella formazione e la collegano chiaramente agli obiettivi strategici, tutto il sistema si muove”.

E citano Josh Bersin (un ricercatore, educatore e analista tecnologico esperto di risorse umane aziendali, della formazione, della gestione dei talenti) che ricordano nella sua massima “le aziende ad alte prestazioni sono aziende che imparano continuamente”.

Come cambiare l’approccio culturale alla formazione all’innovazione e competitività

Quando la radice dei problemi è culturale sembra quasi necessario re-imparare la cultura stessa espressa dall’azienda e dai suoi manager. Ma è necessario un profondo esame di critico e una volontà di risolvere andando al cuore del problema.

I due esperiti ci confermano questi elementi chiarendo che “molti dei problemi delle aziende hanno radici culturali. Ma proprio per questo, paradossalmente, la cultura è ciò che si fatica di più a cambiare”.

Il motivo aggiungono “è che la cultura non è qualcosa che si dichiara, ma qualcosa che si pratica quotidianamente. È invisibile finché non entra in conflitto con un cambiamento. Cambiare cultura significa mettere in discussione comportamenti, credenze e abitudini sedimentate nel tempo, spesso inconsapevoli. Per questo è così difficile: tocca identità, ruoli e status. In molte organizzazioni, ammettere un limite può essere visto come un segno di debolezza, soprattutto da parte di chi ha molti anni di esperienza o ricopre ruoli di responsabilità. Questo blocca il primo passo del cambiamento, che – come ci insegna anche Carol Dweck con la sua teoria del growth mindset – è proprio accettare che si può sempre imparare”.

Ma se le pratiche di formazione al cambiamento, il noto ‘change management’ tanto famoso anni fa quanto abbandonato oggi, non sono perseguibili, si rende necessario avviare un percorso più approfondito.

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“Non basta offrire formazione tecnica o corsi ‘sul cambiamento”, confermano Morici e Frumento “ma serve lavorare su un piano più profondo, abilitando contesti psicologicamente sicuri, dove sia possibile esprimere dubbi, fare domande e sbagliare senza timori. Come sostiene anche Edgar Schein, che parla di inizio della trasformazione culturale quando le persone si sentono abbastanza sicure da mettere in discussione le vecchie certezze”.

Come spesso accade l’innovazione metodologica può favorire il cambio atteso; infatti “pensando a come tradurre questo cambiamento nei percorsi formativi, un approccio utile è innovare le metodologie didattiche e coinvolgere direttamente i manager e le persone più esperte, ad esempio tramite testimonianze, mentorship, flipped classrooms, dove possano trovare valore e stimolo dall’interazione con generazioni più giovani o con nuove tecnologie. In questo modo si riattiva un senso di protagonismo, invece che resistenza”.

E proprio sul valore culturale degli interventi viene spiegato che “come ci ricorda anche Shoshana Zuboff, la vera battaglia non è solo tecnologica, ma culturale: riguarda la nostra capacità di restare padroni delle nostre scelte in un mondo dove le tecnologie cercano sempre più di anticiparle o condizionarle. E la formazione è uno degli strumenti più forti per riconquistare questo spazio di libertà”.

Le responsabilità delle aziende nel talent management

Il rischio di rimandare queste pratiche formative e i loro benefici è indugiare nelle politiche depressive e poco lungimiranti riservate alle risorse umane nelle aziende, molto spesso giustificate da tagli di budget che hanno progressivamente depauperato le attività di formazione impoverendo la popolazione aziendale delle competenze allineate alla trasformazione del business con il risultato di una esigenza di ricambio generazionale “tout court”.

L’espediente usato spesso è la pratica del “training on the job” (letteralmente formazione da lavoro, pratica di formare i dipendenti direttamente affidandogli nuove attività, spesso sena mentoring e coaching di accompagnamento) per risparmiare sulla formazione e garantire all’azienda la produttività del singolo individuo misurata sulle attività di commessa.

Ma senza più investire in formazione mirata e professionale devolvendo budget e investendo anche il tempo lavorativo, invece di chiedere lo svolgimento della formazione fuori orario, le aziende perdono di vista il valore delle risorse umane.

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Un valore che si può mettere in pratica adottando pratiche e principi di valorizzazione dei talenti (talent management) ed intervenendo su criticità oggi sempre più visibili qui enumerate a titolo esemplificativo: stipendi non allineati ai ruoli tecnici e specialistici; ruoli aziendali (ad esempio nella cyber security) che sono la somma di tanti ruoli specialistici insieme in una unica posizione e che evidenziano l’incapacità dell’azienda o l’espediente pretestuoso di cercare una risorsa ‘tuttologa’ (simil ‘one-man/woman band’) buona un po’ per tutto, pagandola con un solo stipendio; carichi di lavoro inappropriati che inducono a stress, burnout e quindi abbandono; job recruiter non tecnici che valutano le competenze soft e sono meno consci di quelle hard da verificare; aziende che cercano talenti competenti e poi li riducono a semplici esecutori senza chiari percorsi di carriera, formazione e senza ascoltarne l’apporto innovativo.

E ancora. Un generale appiattimento dei ruoli specialistici a tre categorie di base: manager, tecnici esecutori di delivery e venditori, quando invece alcuni ruoli intermedi si rivelano strategici per il business; mancanza di cura nell’organizzazione, nelle deleghe ad operare, nei budget a disposizione per lo sviluppo delle risorse; mancanza di accordi corretti per la reperibilità nelle turnazioni (specie nei ruoli del SOC -Security Operation Center e dei gruppi CSIRT- Computer Security Incident Reposponse Team) e nel correlato profilo di rischio di sicurezza sul lavoro; cronico abbandono del remote working e altrettanto cronico disinteresse per il work life balance del dipendente.

Il ROI della formazione: l’esempio della formazione alla sicurezza

Il ritorno di investimento della formazione è facilmente dimostrabile. Oggi le minacce alla sicurezza hanno spesso come vettore di attacco proprio le persone, considerate primo baluardo di difesa, e sempre più soggette a social engineering e manipolazione occulta anche con tecniche di disinformazione e ‘psycological operations’ nei casin di attacchi mirati.

Gli esperti del Cefriel in proposito confermano che “La formazione in cyber security e in generale nelle competenze digitali più avanzate, come l’intelligenza artificiale, ha un ruolo che va ben oltre la dimensione tecnica. Viviamo in un contesto dove l’informazione è abbondante, ma la comprensione è spesso scarsa. In Italia, come in altri Paesi, siamo esposti ogni giorno a flussi di contenuti manipolati, parziali o ingannevoli, che possono orientare opinioni, comportamenti e decisioni in modo poco consapevole.

In questo scenario, la vera resilienza si costruisce prima di tutto con la formazione per sviluppare una cittadinanza digitale matura”. I passaggi suggeriti dagli esperti dovrebbero sostanziarsi in tre direzioni: “Alfabetizzazione critica: non basta saper usare gli strumenti, bisogna capire come funzionano e che impatto hanno sulle nostre decisioni e azioni. Questo vale per i social, ma anche per l’uso di strumenti di intelligenza artificiale o per la lettura di dati e dashboard; Formazione trasversale: oggi non è più solo l’IT a dover conoscere i rischi digitali. Ogni funzione, dal marketing alla produzione, ha bisogno di una base comune di consapevolezza per evitare errori, attacchi o semplici fraintendimenti; Cultura della responsabilità: chi lavora in azienda deve essere formato non solo come ‘utente competente’, ma anche come agente culturale. Ogni comportamento digitale, dalla scelta di una password alla condivisione di un documento, ha conseguenze. Serve una nuova etica digitale diffusa”.

Un ulteriore esempio pratico partecipato da Cefriel come partner è dato dal progetto cofinanziato dall’Unione Europea CYRUS, che ha sviluppato un programma di corsi di formazione gratuiti sulla cyber security, pensato per i professionisti delle PMI, in particolare dei settori trasporti e manifatturiero. Questi corsi (a cui ci si può registrare gratuitamente) forniscono competenze aggiornate e strumenti pratici per aiutare le aziende a proteggersi dalle minacce informatiche.

Le strategie di formazione sono contestualizzate e definite tramite un iniziale maturity assessment culturale per individuare le caratteristiche culturali aziendali funzionali e non, collegandole con la “postura” aziendale sul rischio cyber e la maturità dei processi di difesa informatica.

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Tutto per generare consapevolezza della minaccia, influenza dei comportamenti, creazione di abitudini. La parte simulativa completa la valutazione iniziale. Consta di simulazione di attacchi sugli umani e l’uso di tecniche di apprendimento pratico (learn-by-doing), che preparano le persone a nuove e inattese situazioni per migliorare le competenze tecniche, la capacità di adattamento e la resilienza delle organizzazioni di fronte alle minacce cyber.

Conclusioni

Poiché la domanda e l’offerta di lavoro si sono sempre bilanciate nel tempo, oggi che la richiesta di competenze digitali e in particolare di figure di cyber security e/o AI è molto superiore all’offerta, è probabile che le organizzazioni dovranno fare di più della sola pubblicazione di annunci di ricerche di lavoro, ma impegnarsi per garantire condizioni appropriate, luoghi di lavoro sani e una formazione continua, come patto di fiducia del lavoro, non più solo basato su un approccio basico di ‘comando e controllo VS salario’.



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