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la retromarcia di von der Leyen


Eliminare il greenwashing per tutelare i consumatori? Meglio accontentare aziende e sovranisti. Giorgia Meloni e Viktor Urban, Marine Le Pen e Matteo Salvini, insieme agli altri gruppi di estrema destra dei Patrioti e dei Conservatori, che non sono nella maggioranza di governo europeo, sono euforici. Ancora una volta sembra che le decisioni della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen siano improntate più a compiacerli e a non impensierire le aziende che a rispettare i suoi stessi programmi, i consumatori nonché la posizione dei suoi alleati socialdemocratici nella coalizione che regge la Commissione. Nelle prossime settimane potrebbe essere ritirata una legge sulla pubblicità ambientale  inserita del pacchetto Green Deal, in discussione da due anni e ormai in dirittura d’arrivo. Lo ha chiesto il Partito Popolare Europeo.

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Le due norme principali erano finalizzate a tutelare i consumatori e a disciplinare quell’autentica giungla che sono le diciture ambientalistiche sui prodotti, molto spesso basate solo su strategie di marketing, denominate anche Greenwashing. Ma vediamo i fatti.

Il caos normativo

Nel 2020 le associazioni di consumatori hanno analizzato 344 claim ambientali presenti su prodotti venduti in Europa, e scoperto una situazione preoccupante. In più della metà delle affermazioni (il 57,7%), infatti, il produttore non aveva fornito informazioni sufficienti per valutare la veridicità del claim; nel 50% non si capiva se le frasi fossero riferite al prodotto specifico intero, o a un suo componente; nel 37% dei casi, lo stesso claim conteneva formulazioni vaghe e generiche, come “rispettoso dell’ambiente”, “sostenibile”, miranti a suscitare nei consumatori l’impressione, priva di fondamento, di un prodotto senza impatto negativo sull’ambiente; infine, nel 59% dei casi, il produttore non aveva fornito elementi facilmente accessibili a sostegno delle sue affermazioni.

Per questi motivi le stesse autorità avevano avuto motivo di ritenere che nel 42% dei casi l’affermazione potesse essere falsa o ingannevole, e potesse ricadere nella definizione di pratica commerciale sleale.

Il greenwashing penalizzerebbero soprattutto i produttori medi e piccoli…

Etichette ambigue

Una realtà così ambigua ha spinto i legislatori a proporre due leggi. La prima (la 2024/825), ribattezzata Empowering, è già stata approvata in via definitiva e andrà recepita negli ordinamenti nazionali entro il 27 marzo 2026. Il testo vieta le dichiarazioni generiche come “ecologico”, “verde”, “sostenibile”, e autorizza solo i green claims precisi, basati su dati scientifici e riferiti all’intero ciclo di vita del prodotto. Impone regole stringenti anche su diciture come “impatto zero” o “carbon neutral”, che sarà più possibile inserire basandosi solo sulla compensazione delle emissioni. Regola, in definitiva, ciò che non si può dire.

La seconda, chiamata COM/2023/166, che rischia ora di essere abbandonata in un cassetto di palazzo Berlaymont (la sede della Commissione a Bruxelles) e di non vedere mai la luce, dovrebbe invece normare ciò che si può dire, stabilendo le condizioni necessarie per apporre un claim.

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In sintesi, il testo spiega come essere nelle condizioni giuste per apporre un green claim. Secondo la proposta, il cardine è un meccanismo che obbliga le imprese a dimostrare la veridicità delle affermazioni prima dell’immissione in commercio, sottoponendo le prove di quanto affermato al vaglio di organismi indipendenti accreditati. Solo in caso di via libera l’azienda potrebbe mettere la dicitura. In caso di violazioni, i produttori andrebbero incontro a sanzioni amministrative e penali, stabilite su scala nazionale.

Le reazioni politiche

Anche se all’apparenza si tratta di una vicenda di poco conto, rispetto ai temi con i quali sta facendo i conti la Commissione, le conseguenze di un eventuale abbandono definitivo potrebbero essere molto più gravi del previsto. Questo perché si tratterebbe dell’ennesimo regalo alle aziende a scapito dei cittadini, e dell’ennesimo indizio della volontà – mai dichiarata apertamente – di smantellare il Green Deal. E, soprattutto, sarebbe una decisione in contraddizione con gli accordi precedenti che gli alleati della Commissione non sembrano disposti ad accettare.

Secondo il sito Politico.eu, sempre molto ben informato sulle vicende europee, i liberali di Renew Europe e i socialisti accusano Von der Leyen di voler abbandonare tutte le politiche verdi, ignorando la volontà di chi l’ha votata a novembre, per adottare tutti i peggiori provvedimenti della destra estrema, che sarebbe ormai da tempo l’unico e il vero referente della donna politica tedesca. Si tratterebbe della classica goccia che fa traboccare il vaso, in un ambito particolarmente delicato, dopo lo scandalo del Pfizergate e la condanna della Commissione da parte della Corte di giustizia per non aver voluto pubblicare i messaggi scambiati ai tempi del Covid con il CEO di Pfizer.

E anche per questo Liberali e Socialisti non vorrebbero più proteggere Von der Leyen, e potrebbero bloccare il processo legislativo votando sistematicamente contro. Ci sarebbe poi anche una questione formale, perché la fase legislativa era stata già superata, e ora si trattava solo di negoziare tra il Consiglio e il Parlamento. Ma Von der Leyen avrebbe aggirato il problema di un’eventuale via libero definitivo, ritirando la legge dopo mesi di lavoro: una furbizia che potrebbe costarle molto cara, in quanto violazione esplicita del programma sottoscritto a suo tempo con gli alleati, e una mancanza di rispetto per il Parlamento.

Greenwashing e piccole aziende

I rappresentanti delle aziende, dal canto loro, hanno affermato che le norme contro il greenwashing penalizzerebbero soprattutto i produttori medi e piccoli, obbligandoli ad adempimenti burocratici onerosi. Argomento assai debole, dal momento che scrivere su una confezione che il prodotto è green non è certo obbligatorio. E non dovrebbe essere lecito, se si tratta di affermazioni non comprovate.

© Riproduzione riservata. Foto: Despoitphotos.com

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