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Mariani (Mdba-Leonardo): «Serve più ricerca e sviluppo. E bisogna premiare con i fondi le collaborazioni tra Paesi»


di
Federico Fubini

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Il manager: L’Europa non sarebbe in grado di difendersi per un mese da attacchi missilistici come quelli su Kiev

Come valuta la qualità della difesa antimissile in Italia e in Europa?
«Vedo un elemento positivo e uno negativo – risponde Lorenzo Mariani, Amministratore Delegato di Mbda Italia e Direttore Esecutivo Vendite e Business Development del consorzio Mbda per la difesa antimissile fra Airbus, Bae Systems e Leonardo -. C’è una completezza dei sistemi, rispetto ai requisiti della difesa antimissile. L’Italia e la Francia si basano su prodotti in prevalenza di Mbda per il corto, medio e lungo raggio. La Germania ha fatto una scelta meno europeista, affidandosi fra l’altro ai Patriot americani e agli Arrow israelo-americani. Ma a questa completezza è connessa la frammentazione e si pone poi un tema di disponibilità di queste risorse. Non è sufficiente».

L’Europa sarebbe in grado di difendersi per un mese da attacchi missilistici come quelli su Kiev o su Tel Aviv?
«Non posso fare io questa valutazione, riguarda gli stati maggiori delle singole nazioni e la Nato. La mia impressione da esperto della materia è che, per un mese, no».




















































Che volumi d’investimento sono necessari per una copertura antiaerea più sostanziale?
«Svariate decine di miliardi. Bisogna rifornire gli stock con più missili e sistemi di difesa, inclusi i satelliti. E serve un investimento molto maggiore in ricerca e sviluppo per dare ai sistemi esistenti capacità che oggi non hanno. O per sviluppare nuovi sistemi. Per esempio, contro i missili ipersonici».

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Gli Oreshkin russi?
«Anche. Per esempio i sistemi di tipo HYDIS che l’Europa sta sviluppando, richiedono una forza d’investimento molto maggiore di quella che l’Europa stessa ha messo in campo finora. Le dichiarazioni delle varie autorità sembrano portare a grandi fondi, ma nel sistema ancora non sono scesi».

Le americane Lockheed Martin e Raytheon-Rtx forniscono una batterie di sistemi antimissile Patriot al Pentagono per circa un miliardo di dollari l’una, ma ai Paesi terzi lo stesso prodotto può costare 2,5 miliardi. Ha ancora senso dipendere dagli Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti sono più avanti. Ma l’Europa in alcuni campi è estremamente vicina alle capacità americane, di sicuro nella difesa aerea da minacce all’interno dell’atmosfera. Quando invece si tratta di missili che viaggiano fuori dall’atmosfera o missili di ipersonici, effettivamente l’Europa è un po’ indietro. È il tema dell’accelerazione delle nostre aziende: servono ancora da uno a tre anni perché l’Europa riesca a lanciare davvero la sua macchina produttiva».

Perché?
«Perché per troppi anni ci si era dimensionati per il minimo necessario in un mondo pacifico. Quindi ora scalare la produzione del 20% o anche del 60% è possibile. Ma raddoppiare, triplicare o in certi casi decuplicare è un’altra storia. I nostri fornitori sono spesso piccole e medie imprese, ma tutto il sistema ha bisogno di tempo per adeguarsi. La Russia è entrata in un’economia di guerra, l’Europa non l’ha mai fatto».

È vero che ci sono ormai liste di attesa di cinquanta Paesi per avere i Patriot americani?
«L’America, nella sua disponibilità generale a sostenere la difesa aerea, ha fatto presente che ci sono incrementi di costi e di tempi. Non so se sono cinquanta i Paesi nelle liste d’attesa, ma sono diversi e sicuramente c’è una lista importante anche per prodotti più semplici come i missili Stinger (di Raytheon-Rtx, ndr). L’Italia ne è un utente, ma ha trovato una lista d’attesa enorme. Per cui si è rivolta a noi».

Come valuta l’impegno della Nato di salire a una spesa militare del 3,5% del prodotto lordo, più un ulteriore 1,5% in cybersicurezza e infrastrutture?
«Mi pare il modo corretto di porre un obiettivo ambizioso. È positivo il fatto di separare in un proprio budget la spesa per la dimensione cyber, per darle rilevanza e visibilità. Quanto al 3,5%, alcuni Paesi ci sono già e altri ci arriveranno presto. La Polonia ha fatto uno sforzo magistrale».

E l’Italia?
«Al netto delle spese come stipendi o missioni, oggi l’Italia spende fra nove e dieci miliardi l’anno per l’acquisto di materiale bellico. Nel prossimo biennio l’industria è in grado di assorbire un raddoppio, pari a circa lo 0,5% del Pil. Nel caso di un secondo o terzo raddoppio da quei livelli, diventa molto importante l’intervallo temporale. È un tema di materie prime, macchinari, ma anche di personale. Bisognerebbe pensare a qualcosa di veramente innovativo».

Non funzionerebbe meglio una maggiore integrazione fra i sistemi d’arma in Europa?
«L’ho sempre detto. I programmi dell’industria della difesa fatti in collaborazione dovrebbero ricevere un premio significativo in finanziamenti comuni europei. Ciò aiuterebbe i governi a decidere in quel senso. Un altro tema è che l’incremento delle spese militari in Russia apparentemente ha dato luogo a un aumento secco di capacità produttiva. In Europa, invece, anche ad un effetto di inflazione sui materiali bellici. Ma se abbiamo progetti comuni, ciascun governo sarebbe molto più attento nel controllare i costi».

La Commissione Ue mette a disposizione il prestito Safe per la difesa, a interessi scontati. L’Italia dovrebbe prenderlo?
«Sì, non ho dubbi. Intanto perché le condizioni saranno molto favorevoli, sia come interessi che come tempi di rimborso. Ma soprattutto il Safe, con i suoi vincoli a finanziare progetti in collaborazione con altri Paesi, per l’Italia diventa una vetrina. Noi nella difesa non siamo solo compratori, ma soprattutto produttori ed esportatori».

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25 giugno 2025

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