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Le conseguenze nel tempo della guerra commerciale


Le catene globali del valore plasmano ormai l’economia mondiale. Per questo, la guerra commerciale non ha effetti solo sulle scelte delle imprese. Un rallentamento della globalizzazione ha conseguenze di medio periodo ancora più preoccupanti.

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Il mondo delle catene globali del valore 

Le catene globali del valore oggi sono la trama e l’ordito delle interdipendenze economiche tra paesi. All’interno di esse avviene circa il 70 per cento del commercio internazionale (dato Ocse 2020): anziché essere i paesi a produrre beni finiti e poi esportarli, i beni e i servizi sono suddivisi in fasi e prodotti in diverse località del mondo prima di essere assemblati in un prodotto finale. 

Le catene globali del valore sono pervasive, in termini sia di settori sia di paesi coinvolti e costituiscono oggi una caratteristica strutturale della divisione internazionale del lavoro (e non una semplice modalità di produzione tra le tante possibili), dal momento che la struttura industriale dei settori “globalizzati” è cambiata, insieme alla geografia della produzione. 

Aumenta la distanza geopolitica

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Dalle catene globali del valore dipendono i grandi squilibri internazionali, segnatamente quello delle bilance commerciali delle due economie più grandi del mondo: Stati Uniti in disavanzo e Repubblica Popolare in avanzo. Sebbene ciò non sia un problema dal punto di vista macroeconomico (fintanto che i paesi in disavanzo commerciale riescono a finanziarsi), oggi la manifestazione degli squilibri globali coincide con una “distanza geopolitica” estrema tra i due paesi che ne sono protagonisti. 

Con distanza geopolitica ci si riferisce al grado di allineamento o disallineamento tra le politiche estere dei paesi, spesso misurato in base ai loro modelli di voto in organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite. Si tratta di un modo per quantificare quanto gli interessi e le posizioni di due nazioni siano allineati. In generale, il commercio tra economie geopoliticamente distanti rappresenta quasi il 20 per cento del commercio globale di beni, ma quasi il 40 per cento del commercio di prodotti concentrati a livello globale, come i laptop e il minerale di ferro, per i quali tre o forse meno economie forniscono almeno il 90 per cento delle esportazioni globali.

La combinazione tra grandi squilibri commerciali, pervasività delle catene globali del valore come modalità di divisione internazionale del lavoro e distanza geopolitica tra grandi partner commerciali, costituisce un motivo di fragilità per l’economia mondiale. In particolare, le politiche protezionistiche degli Stati Uniti nei confronti non soltanto della Cina, ma del resto del mondo, hanno effetti amplificati dall’esistenza di reti di produzione, e duraturi.

Un impatto sistemico

L’impatto dei dazi non è più soltanto di natura congiunturale o limitato ai paesi colpiti, ma diventa sistemico per almeno tre motivi. Primo, la difficoltà da parte delle politiche protezionistiche americane di ridurre il disavanzo commerciale (l’obiettivo dichiarato della guerra commerciale iniziata dal presidente Trump nel 2018 e rinvigorita all’inizio del suo secondo mandato presidenziale) è ormai strutturale: è improbabile la tendenza a un rientro della manifattura al punto da ridurre gli squilibri reali accumulati sin dalla metà degli anni Ottanta del Novecento. Sebbene ciò non sia necessariamente un motivo di fragilità (considerato che dal lato della bilancia dei servizi, gli Stati Uniti registrano invece un ampio avanzo), le conseguenze politiche interne di un atteggiamento e un approccio paranoico da parte ormai di tutto il Congresso americano in merito al disavanzo commerciale sulle merci, porteranno a una endogenizzazione delle tendenze protezionistiche. Nessun candidato potrà permettersi di allontanarsi da un programma tendenzialmente protezionistico, come è avvenuto durante la presidenza Biden, che di fatto non ha cambiato il corso della politica commerciale del primo mandato di Trump. 

Dal momento che l’economia più importante del mondo, fautrice della globalizzazione, prende una deriva protezionistica, non stupisce che il timore di conseguenze negative sulla sua crescita porti a un indebolimento della fiducia estera nell’economia Usa, i cui segnali sono già evidenti: riduzione dei rendimenti dei titoli del debito pubblico americano e indebolimento del dollaro, che ha perso il 10 per cento del suo valore dall’inizio del 2025.

Secondo, la riconfigurazione geografica dei flussi commerciali, dovuta soprattutto al crollo del commercio bilaterale tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese (solo nel mese di maggio 2025, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono diminuite del 34,5 per cento), e il contestuale aumento dell’interscambio intra-Asia, tra Asia e Africa, Medio Oriente e America Latina sposteranno, insieme ai flussi di commercio, anche gli incentivi a favore di una governance del commercio mondiale dominata da accordi regionali e da minilaterals, a sfavore del multilateralismo. Poiché l’Asia orientale e sudorientale è la più attiva in tal senso, è di cruciale importanza che l’Ue estenda e velocizzi i partenariati (non necessariamente generali, ma anche minideals) con i più importanti paesi asiatici (non necessariamente i più grandi, ma i più dinamici). Gli incentivi a perseverare in una governance multilaterale del commercio internazionale vacillano, dal momento che gli Stati Uniti millantano di volerne uscire sin dal 2018 e un recente paper di Henrik Horn e Petros Mavroidis sostiene che “Gli Stati Uniti sono stati la forza trainante della creazione del Gatt/Organizzazione mondiale del commercio. Tuttavia, da tempo hanno abbandonato il loro ruolo di leadership nell’Omc. Hanno mostrato scarso interesse a impegnarsi nella necessaria riforma dell’accordo; ora violano quasi tutti i vincoli tariffari; violano la disposizione fondamentale della nazione più favorita; continuano a bloccare le nomine dell’organo d’appello, paralizzando una caratteristica centrale del sistema di risoluzione delle controversie; e non pagano le quote di adesione. Nella scelta se gli Stati Uniti debbano o non debbano essere membri, l’onere della prova dovrebbe ricadere su coloro che sostengono la necessità di mantenere gli Stati Uniti come membri”.

Terzo, ma non meno importante, l’ulteriore rafforzamento dell’interdipendenza tra la Repubblica popolare cinese e il cosiddetto Sud del mondo porterà a un consolidamento della posizione diplomatica di Pechino nei contesti multilaterali (leggi Assemblea generale Onu) e a un ulteriore rafforzamento della group diplomacy da parte di Pechino. Questo potrà indebolire la capacità della diplomazia economica europea di perseguire un aumento della sicurezza dell’approvvigionamento di risorse come i critical raw materials, di cui sono dotati molti paesi poveri del Sud del mondo, che Pechino annovera nella sua rete di partner economici e commerciali e con i quali ha relazioni economiche privilegiate.

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Alessia Amighini

Professore associato di Politica economica presso l’Università del Piemonte Orientale e Associate Senior Research Fellow nel programma Asia dell’ISPI. E’ stata visiting scholar presso il Department of International Business and Economics dell’Universita’ di Greenwich ed economista presso la United Nations Conference on Trade and Development. Ha pubblicato numerosi articoli sull’economia cinese e sull’espansione delle imprese cinesi all’estero su riviste accademiche internazionali quali China Economic Review, China and the World Economy, International Economics, World Development, World Economy. Tra i libri: L’economia della Cina nel XXI secolo (con F. Lemoine), Il Mulino, 2021; L’économie de la Chine au XXIè siècle (con F. Lemoine), La Découverte (in corso di pubblicazione); China Dream: Still coming True?, ISPI, 2016; Xi Jinping’s policy gambles: The bumpy road ahead (con A. Berkofski), ISPI, 2015 e L’economia della Cina (con S. Chiarlone), Il Mulino, 2006.



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