Ci sono notizie che ti passano davanti come titoli di coda di un film che non hai visto, ma in cui hai recitato lo stesso. “Accordo al G7 sulla Global Minimum Tax, ma con esenzioni per gli USA”. Sembra una nota a piè di pagina nel grande romanzo della geopolitica. Ma poi guardi meglio. Non è un dettaglio. È il punto esatto in cui un’idea giusta si piega, silenziosamente, al peso del potere.
Torniamo indietro di qualche anno. L’idea era semplice, quasi ovvia. Le multinazionali – quelle che muovono miliardi, che vendono in tutto il mondo ma che spesso non pagano nulla nei Paesi dove operano – avrebbero finalmente dovuto sottostare a una regola minima: pagare almeno il 15% di tasse sui profitti globali. Ovunque, sempre. Un’idea nata sotto l’egida dell’OCSE, spinta dai governi europei, appoggiata inizialmente anche dagli Stati Uniti. La chiamavano Pillar Two, come a dire che stavano costruendo le fondamenta di una nuova architettura fiscale mondiale. Ambizioso, no?
Poi però è arrivato il momento di fare sul serio. Di passare dalla teoria alla pratica. E lì, come sempre, si è vista la distanza tra i princìpi e gli interessi. Al G7 di Banff, gli Stati Uniti si sono presentati con una richiesta precisa: niente Income Inclusion Rule per le imprese americane. Detto in modo più diretto: “le nostre aziende non devono pagare tasse extra all’estero se da noi seguono già il nostro schema, il GILTI”.
Cos’è il GILTI? Un acronimo che sembra inventato da un romanziere di fantascienza, ma che in realtà è la versione americana di una tassa sui profitti esteri. Solo che ha un problema: è più morbida, ha basi imponibili diverse, e in certi casi permette di pagare meno di quel famoso 15%. Quindi, nel sistema pensato dall’OCSE, i Paesi esteri avrebbero potuto dire: “Ok, se non raggiungi il minimo, la differenza la incassiamo noi”. È il cosiddetto meccanismo del top-up tax. Una regola giusta, persino elegante.
Solo che gli Stati Uniti questa regola non la volevano. Hanno messo sul tavolo il ricatto soft della diplomazia: o ci fate entrare con le nostre condizioni, oppure vi scatenate addosso le misure della Section 899, che punisce fiscalmente chi applica tasse aggiuntive alle imprese americane. Una specie di clava legale, infilata in una valigetta di cuoio.
E alla fine, il resto del G7 ha detto sì. O meglio: ha detto “side-by-side”. Che in inglese suona come una cosa bella, armonica. Fianco a fianco. Ma nei fatti è una scorciatoia, una deroga elegante. Le aziende americane potranno continuare a usare il GILTI, senza essere colpite da tasse correttive. Niente top-up. Niente regole comuni. Loro sono “a posto così”.
E allora quella tassa minima globale, la famosa Global Minimum Tax, che cosa diventa? Una specie di rete bucata. Funziona solo per chi resta dentro i limiti, per chi non ha un sistema forte abbastanza da imporsi. I big – USA, Regno Unito, forse domani qualcun altro – volano sopra, come aerei in corsia preferenziale. Le regole, alla fine, sono per gli altri.
Il paradosso è che tutto questo viene venduto come una vittoria del multilateralismo. Nei comunicati ufficiali si parla di “equilibrio raggiunto”, di “progressi significativi”. Ma se lo guardi per quello che è, sembra più un patto tra pochi per salvare lo status quo. Le multinazionali americane – Apple, Google, Pfizer, Amazon – continueranno a godere di un sistema fatto a misura per loro. E i Paesi dove operano, dove vendono, dove accumulano ricchezza, si ritrovano con le mani vuote.
Certo, qualcosa dell’accordo sopravvive. Il meccanismo tecnico del Pilastro 2 resta in piedi. Alcune aziende – magari europee, magari asiatiche – saranno colpite dalla tassa minima. Ma è un castello con le torri abbattute. Una struttura che avrebbe dovuto portare 150 miliardi di dollari in tasse all’anno rischia di raccoglierne la metà. Forse meno. E la cosa più amara è che nessuno sembra davvero stupito. È come se fosse normale che le regole si pieghino quando entrano in gioco i potenti. Come se fosse accettabile che il principio dell’equità venga sospeso ogni volta che urta contro una lobby troppo forte, un Paese troppo grande, un’economia troppo determinante.
La Global Minimum Tax, così com’è, non è mai nata davvero. È rimasta un progetto ambizioso, trasformato in uno schema tecnico, poi svuotato di senso dalla diplomazia. Ci si potrebbe fare un documentario: “Anatomia di una riforma globale che non ha mai avuto la forza di essere reale”. Una specie di “making of” della sconfitta. E allora sì, forse aveva ragione chi diceva che le vere regole globali non si scrivono nei trattati, ma nelle eccezioni. E in quel fianco a fianco – “side-by-side” – che oggi sembra più una linea di separazione che un punto d’unione.
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