Mentre il governo italiano spera in un’intesa che mantenga i dazi sul vino al 10%, le imprese del comparto vitivinicolo si preparano a fronteggiare uno scenario difficile. In attesa di decisioni definitive, buona parte dell’agroalimentare italiano si sta già organizzando per redistribuire l’onere tra produttori, distributori e consumatori. Tuttavia, secondo un sondaggio realizzato dall’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv), l’industria del vino guarda con forte preoccupazione all’impatto economico della misura.
Il mondo del vino guarda con grande preoccupazione la possibile introduzione di dazi sul vino
Dazi al 10%: un costo che ricadrà sull’intera filiera del vino
Secondo l’indagine, che ha coinvolto le principali imprese vinicole italiane per un giro d’affari aggregato superiore a 3,2 miliardi di euro, le ripercussioni potrebbero essere tutt’altro che marginali. Il 24% dell’export vinicolo italiano è diretto verso gli Stati Uniti, per un valore complessivo stimato in 1,94 miliardi di euro nel 2024. Per circa il 90% delle imprese intervistate, i consumatori americani non sarebbero in grado di assorbire l’incremento del prezzo finale al dettaglio causato dall’imposizione del dazio. Questo comporterebbe una diminuzione diretta del fatturato stimata tra il 10 e il 12%, anche in funzione dell’andamento del cambio euro/dollaro.
I dati raccolti da Uiv mettono in luce una diffusa preoccupazione tra gli operatori del settore. Il 77% delle imprese considera l’impatto dei dazi complessivamente rilevante, con una suddivisione che vede un 61% indicare un impatto “medio-alto” e un ulteriore 16% giudicarlo “molto alto”. Il presidente di Uiv, Lamberto Frescobaldi, ha sintetizzato così la posizione delle imprese: «Occorre ricordare come il settore del vino sia tra i più esposti all’aumento delle barriere, in primo luogo perché la quota export statunitense arriva al 24%, contro una media del made in Italy che supera di poco il 10%. Ma anche perché il vino è un bene voluttuario, quindi con una maggior propensione alla rinuncia all’acquisto».
Le ricadute sugli Stati Uniti e sulla filiera italiana
Secondo Frescobaldi, anche la catena commerciale statunitense avrebbe da perdere: «Il danno ci sarebbe eccome – ha sottolineato – per le nostre imprese, ma anche per la catena commerciale statunitense, che per ogni dollaro investito sul vino europeo ne genera 4,5 a favore dell’economia americana». Le imprese più esposte al rischio sono in particolare le piccole aziende, che in molti casi dipendono dagli Stati Uniti per oltre il 50% del loro fatturato. A essere penalizzate saranno anche le denominazioni italiane più richieste oltreoceano, come Moscato d’Asti, Pinot grigio, Chianti, Prosecco e Lambrusco. In un contesto dove l’incertezza pesa almeno quanto il dazio stesso, molte imprese stanno valutando come redistribuire il peso dell’eventuale imposta del 10% lungo tutta la filiera. Alcune hanno già preso contatti con i distributori per spalmare il costo tra margini di guadagno e revisione dei listini, cercando di limitare l’impatto finale sul consumatore. Tuttavia, anche con questi accorgimenti, non si esclude che si possa perdere competitività rispetto ad altri paesi produttori non soggetti a dazi, come il Cile o l’Australia.
Dazi Usa, chi pagherà questo 10%?
In attesa di una definizione chiara e definitiva sul fronte dei dazi, il governo italiano guarda con favore all’ipotesi di una soglia fissata al 10%, ritenendola un compromesso sostenibile rispetto a scenari più gravosi per il settore. Si tratterebbe, nelle intenzioni, di una misura gestibile, che consentirebbe all’export agroalimentare nazionale – e in particolare al vino – di evitare conseguenze più pesanti sul piano commerciale. Tuttavia, le incertezze restano, e con esse la necessità per le imprese di prepararsi a uno scenario di incremento dei costi, seppure contenuto. In questo quadro, molti operatori dell’agroalimentare, non solo del comparto vinicolo, stanno già lavorando per affrontare in modo strutturato l’eventuale impatto economico dei dazi.
Lamberto Frescobaldi, presidente Uiv
La strategia più diffusa consiste nel “spalmare” l’onere del dazio del 10% lungo l’intera filiera commerciale, suddividendolo tra produttori, distributori e clienti finali. Un approccio che mira a diluire gli effetti del rincaro sul prezzo al dettaglio, evitando che il carico ricada interamente sul consumatore – scenario che rischierebbe di ridurre ulteriormente la competitività del prodotto italiano sugli scaffali statunitensi. Molti operatori stanno già rinegoziando i termini contrattuali con importatori e partner americani, valutando rimodulazioni dei margini o interventi selettivi sui listini, per cercare di contenere la perdita di quota di mercato e salvaguardare la presenza del made in Italy negli Stati Uniti. Questo tipo di risposta, pur necessaria, non è però priva di rischi, soprattutto per le aziende di piccole e medie dimensioni, che dispongono di una minore elasticità economica e una forte dipendenza dal mercato USA.
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