Sul Piano Italia 5g va tutto bene, dice il Dipartimento per l’Innovazione di palazzo Chigi. I dati, però, dicono una cosa diversa: è stato completato appena il 38,63% delle aree da coprire, dopo 3 anni dall’affidamento dei lavori e a 365 giorni dalla scadenza, con il rischio di perdere quasi 350 milioni di fondi Pnrr (per l’esattezza: 345.716.657 euro). Ora, in soli 12 mesi, serve uno sprint da centometrista per colmare il gap del 61.37%.
Ma il Dipartimento per la trasformazione digitale, guidato dal fratello d’Italia Alessio Butti, predica ottimismo. Tanto da innalzare l’asticella dei lavori già eseguiti – di fatto – fino all’80 per cento. Insomma, nero su bianco è stato compiuto poco più di un terzo del lavoro, ma in teoria saremmo ad una spanna dal traguardo. Da dove nasce una valutazione così ambiziosa? Semplice: basta considerare i “siti in lavorazione” – il 40,57 per cento – come già (quasi) conclusi. Allora sì che il Piano si avvicina alla meta, fino alla soglia dell’80 per cento. Ma il dato ufficiale dimezza la stima del Dipartimento guidato dal meloniano Butti. Su 900 torri per le antenne 5g da installare, 259 sono già attive e 402 in lavorazione.
L’obiettivo finale è garantire l’accesso alla banda larga in 1.385 aree bianche: quei territori montani o rurali disertati dalle compagnie private, perché i clienti sono pochi e scarsi i guadagni. Il bando è stato vinto da Inwit, colosso globale controllato dai fondi Ardian (con soci francesi) e Vantage Towers (Vodafone, Kkr e Global Infrastructure Partners). Inwit è la capofila del Raggruppamento temporaneo di imprese con Tim e Vodafone-Fastweb. Il colosso rassicura sul raggiungimento dell’obiettivo entro la scadenza del 30 giugno 2026. Il Dipartimento ci crede. Dei 402 siti in lavorazione, ben 200 sono tecnicamente completati o in fase molto avanzata, sostengono Inwit e l’ala di palazzo Chigi. E poi le 253 stazioni attivate coprono più di 500 aree su 1385, rilanciano. Ma è impossibile verificare.
In compenso, una fonte con le mani sul dossier appare preoccupata: “Non si può dire che la situazione non sia allarmante”, dice al Fatto.it. Il problema è noto: per installare i tralicci che sostengono le antenne serve l’autorizzazione dei Comuni. Ma i municipi, per le torri, chiedono da sempre il pagamento di un canone d’affitto ad Inwit e alle altre compagnie: il costo parte da 5mila ma può superare i 20mila euro l’anno. Inwit invece vuole pagare solo 800 euro l’anno, grazie ad un emendamento FdI-Pd al decreto decreto n. 77 del 2021 firmato Mario Draghi. Ai Comuni è costato 400 milioni, la compagnia delle torri avrebbe risparmiato 180 milioni l’anno. Il provvedimento, sulla carta, serviva ad incentivare Inwit e accelerare lungo la via della digitalizzazione. Ma il risultato è stato opposto, alimentando centinaia di contenziosi tra il colosso e i piccoli Comuni, in una guerra legale tra Davide e Golia sfociata nei tribunali.
I sindaci lamentano l’arroganza di Inwit nel decidere le aree ignorando i Piani comunali. Del resto la legge glielo consente, in virtù del decreto Coesione varato da Meloni nel 2024. Inwit ribadisce di tutelare solo l’interesse pubblico, con il 5g nelle aree bianche. E accusa i Comuni di non rispettare le leggi nazionali. Tra i due litiganti, il 5g nelle aree rurali arranca e ballano quasi 350 milioni del Pnrr.
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