Dal Portogallo alla Polonia ondate di caldo estremo stanno investendo l’Europa: il mese di giugno che si è appena concluso ha portato con sé picchi di calore senza precedenti e quello di luglio si preannuncia altrettanto se non più torrido. D’altronde le estati insolitamente calde sono ormai la norma nel Vecchio continente: il 2024 è stato il più caldo mai registrato, superando il 2023, che a sua volta aveva superato i record del 2022 e del 2021. Lo scorso 28 giugno le temperature erano così infuocate che lo zero termico si è assestato sopra i 5mila metri, ben oltre le creste più alte del Monte Bianco. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i ghiacciai in tutto il continente si stanno rapidamente riducendo e negli ultimi 25 anni circa il 39% di quelli dell’Europa centrale si è sciolto, distruggendo risorse di acqua dolce e provocando un innalzamento sempre più rapido dei livelli del mare. Il mare, appunto, quello Mediterraneo in particolare, anch’esso vittima di aumenti record delle temperature. Il riscaldamento più intenso è stato osservato nel bacino occidentale dove il Mar delle Baleari e il Mar Tirreno hanno raggiunto aumenti anche di 5°C sopra la media. E se nelle città si registrano temperature bollenti fuori, le autorità locali – dalla Grecia ai Balcani occidentali all’Italia – diramano allarmi sul rischio di incendi boschivi. Ieri, lo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, dai 41°C di Siviglia, dove si trovava per la Conferenza Onu sul finanziamento allo sviluppo, ha ribadito l’allarme. “Il caldo estremo non è più un evento raro – ha scritto in un post su X – È diventato la nuova normalità”.
Aumentano le emissioni di gas serra?
Le ondate di calore, prolungate e ripetute, preoccupano anche i cittadini: secondo Eurobarometro l’85% degli europei ritiene che il cambiamento climatico sia “un problema serio” e che la lotta contro i suoi effetti debba essere considerata una priorità per migliorare la salute e la qualità della vita. Inoltre l’81% degli intervistati sostiene l’obiettivo dell’Ue di neutralità climatica entro il 2050. Quasi 8 cittadini europei su dieci ritengono inoltre che “il costo dei danni dovuti al cambiamento climatico sia molto più elevato dell’investimento necessario per una transizione verso zero emissioni nette”. Esperti di clima e opinione pubblica per una volta concordano. Se le ondate di caldo estremo saranno sempre più comuni, bisognerà attrezzarsi: “Ogni frazione di grado di aumento della temperatura è importante, perché accentua i rischi per le nostre vite, per le economie e per il pianeta”, afferma Celeste Saulo, capo dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale. “L’adattamento è fondamentale”. Ma nonostante le tendenze e proiezioni preoccupanti, le emissioni globali di gas serra continuano ad aumentare. Secondo il rapporto annuale dell’Energy Institute – che comprende professionisti dell’energia a tutti i livelli, insieme alle società di consulenza – il 2024 ha segnato un altro record per l’approvvigionamento dell’energia a livello globale, trainato dalle incertezze e crescenti tensioni geopolitiche: le emissioni globali di CO2 del settore energetico hanno raggiunto un livello record per il quarto anno consecutivo, mentre l’uso di combustibili fossili continua ad aumentare. Gli analisti che monitorano i progressi affermano che, nonostante siano state aggiunte quantità record, il mondo non è sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo globale di triplicare la capacità di energia rinnovabile entro il 2030.
Il Green Deal ha perso slancio?
Neanche l’Europa sfugge all’aumento della richiesta di energia osservato dagli esperti a livello globale. Ma pur restando l’Unione un modello nell’azione per il clima, la sensazione è che l’agenda europea per la lotta ai cambiamenti climatici abbia perso slancio. Le ragioni sono molteplici: da un lato – come osserva Politico – il Partito popolare europeo, che rincorre i partiti di destra rafforzati dalle ultime elezioni europee, preme per riformulare la politica della Commissione, e dall’altro il mutato contesto geopolitico sta facendo il resto. Lanciato nel 2019, all’inizio del primo mandato di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea, il Green Deal prometteva di rivoluzionare completamente l’economia del blocco, riducendo a zero l’inquinamento che provoca il riscaldamento globale, e rimodellando l’agricoltura, i trasporti e rimettendo in armonia con la natura industria, aziende e cittadini. Da allora, però, gli eventi che si sono susseguiti – dalla pandemia, alla guerra russo ucraina prima e in Medio Oriente poi – hanno spinto la Commissione a scendere a compromessi su una serie di norme ambientali. “Lo scenario in cui si muoveva il Green Deal è mutato drasticamente e, con esso, la sua stessa natura” osserva Francesco Sassi, passando da “bigliettino da visita delle ambizioni globali Ue” al rischio di far germogliare nel cuore dell’Europa “l’ennesimo seme di corsa al protezionismo e alla frammentazione delle supply chains. Il tutto senza alcuna assicurazione che l’industria verde europea sia in grado di consolidare il proprio terreno”.
Crescita e ambiente sono incompatibili?
Mentre cresce la frustrazione tra coloro che vorrebbero preservare il Green Deal nella sua forma originale, la Commissione si difende sostenendo che, al netto di retromarce e revisioni anche molto contestate, il fulcro della road map per la transizione energetica – che prevede zero emissioni nette entro il 2050 – non è cambiato. L’esecutivo europeo afferma di dover tenere nella giusta considerazione gli obiettivi di crescita economica senza sacrificare i suoi ambiziosi obiettivi climatici. In realtà, però, nelle ultime settimane ha presentato una serie di regolamenti eterogenei, con alcune misure promettenti ma anche chiari compromessi al ribasso sulla sostenibilità ambientale. Intanto, molte aziende stanno cercando di capire esattamente come i piani le influenzeranno, nel bene e nel male. E se, come per il settore automobilistico, alla fine la trasformazione della mobilità finisca col promuovere prodotti stranieri (cinesi, nel caso specifico) penalizzando le aziende europee. A conferma del fatto che la transizione verde dell’Europa passa per Pechino, che produce circa il 65% delle batterie e gestisce processi industriali e catene di montaggio. Anche tra le aziende che promuovono la sostenibilità e l’energia verde, c’è la convinzione che l’Ue debba applicare un approccio ‘più carota e meno bastone’. Tradotto, significa che per raggiungere l’obiettivo di una rapida transizione verde, l’Europa avrebbe bisogno di incentivi e sovvenzioni, che tuttavia sono impensabili per molti stati membri. L’alternativa, osserva non senza un certo allarmismo un industriale europeo intervistato dal Financial Times “è che la transizione verde si faccia, anche in Europa, ma se non stiamo attenti non si farà con troppe aziende europee”.
Il commento
Di Massimo Lombardini, ISPI Associate Research Fellow
“Da diversi fronti politici ci sono pressioni più o meno spinte, per la riformulazione degli obbiettivi del Green Deal o addirittura come proposto da partiti di estrema destra una sua rottamazione. Sicuramente c’è stato negli scorsi anni un eccesso di green deal e alcuni dei suoi obbiettivi debbono essere rivisti soprattutto in considerazione di un contesto internazionale completamente modificato dal conflitto in Ucraina e le recenti tensioni in Medio Oriente. Se un “pitt stop” del Green Deal è auspicabile l’Unione europea deve però continuare le sue politiche di decarbonizzazione e sviluppo sostenibile. In questa ottica sarà estremamente interessante il dibattito che si avrà nei prossimi mesi sugli obbiettivi intermedi di decarbonizzazione del 90% da raggiungere per il 2040”.
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