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Nel corso degli ultimi 50 anni, la trasformazione digitale ha profondamente modificato il modo in cui imprese e Pubblica Amministrazione (PA) operano, comunicano e generano valore.

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Questa evoluzione, accelerata a partire dagli anni ‘70, ha avuto una spinta decisiva grazie alla convergenza di tecnologie digitali, software sempre più sofisticati, servizi IT innovativi e dispositivi mobili, accompagnati dallo sviluppo delle competenze digitali nella forza lavoro.

Sintetizziamo i principali risultati di un’analisi approfondita sull’evoluzione e i progressi della digitalizzazione considerando le sue dimensioni tecnologiche, organizzative e culturali.

Le infrastrutture tecnologiche alla base della trasformazione digitale

La trasformazione digitale, o digitalizzazione, poggia su un’infrastruttura tecnologica articolata. Le Reti che rappresentano l’ossatura di base, evolvendo dalle prime reti locali fino all’attuale diffusione della connettività IP ad alta capacità, della segmentazione del traffico e delle reti software-defined. Il progresso dei chipset, dell’hardware di computing e del cloud ha reso possibile la scalabilità dei servizi digitali, sia nei datacenter aziendali sia nelle soluzioni cloud ibride e pubbliche. Le tecnologie wireless e mobili hanno garantito connettività ubiqua, mentre il ruolo crescente delle tecnologie satellitari a orbita bassa (LEO) sta iniziando a supportare le comunicazioni nei territori remoti e rafforzare quelle per le infrastrutture critiche.

L’introduzione e la diffusione di software gestionali, in particolare ERP (Enterprise Resource Planning), CRM (Customer Relationship Management), HCM (Human Capital Management), ha rappresentato una leva fondamentale per la digitalizzazione dei processi aziendali. Questi strumenti hanno permesso una gestione integrata ed efficiente delle risorse, dei clienti, dei dipendenti e dei flussi informativi, contribuendo all’aumento della produttività e della trasparenza. Inoltre aria evoluzione dell’open source ha dato e continua a dare linfa vitale allo sviluppo delle componenti software per tutte le applicazioni che oggi conosciamo.

La digitalizzazione si è accompagnata allo sviluppo di un ecosistema di servizi IT sempre più specializzati i quali hanno spesso accompagnato l’inserimento in azienda, con le necessarie personalizzazioni, dei grandi applicativi software già citati. Tra questi servizi spiccano, il consulting strategico per la transizione digitale, i servizi applicativi (sviluppo, gestione e integrazione di software), le infrastrutture ICT gestite in modalità as-a-service e l’outsourcing dei processi aziendali (BPO). Questi servizi hanno supportato le imprese nel ridisegnare i modelli organizzativi e operativi, con un’attenzione crescente alla cybersecurity, alla compliance e all’interoperabilità.

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Gli strumenti della trasformazione digitale

L’accesso ai servizi digitali è stato reso possibile e diffuso grazie alla disponibilità e all’evoluzione dei dispositivi: PC, laptop, smartphone, tablet, smart TV. Questi strumenti non solo hanno abilitato nuove modalità di fruizione dei contenuti e dei servizi, ma hanno anche modificato le abitudini lavorative e sociali, favorendo lo smart working, la mobilità e la fruizione multicanale. È solo il caso di ricordare la straordinaria evoluzione e diffusione degli smartphone che di fatto sono diventati il principale fondamento dell’evoluzione dei processi in senso digitale.

L’uso di suite integrate per la collaborazione e l’automazione documentale (email, elaborazione testi, fogli di calcolo, presentazioni, videoconferenza, workflow management) ha rivoluzionato la produttività individuale e collettiva. La possibilità di lavorare in modo condiviso, in tempo reale, su piattaforme cloud, ha aumentato l’efficienza e reso più fluide le relazioni interne ed esterne.

Con l’avvento dei social media, la comunicazione tra individui, aziende e istituzioni è divenuta bidirezionale e istantanea. I social network hanno aperto nuovi canali di marketing, di relazione con il cliente, di partecipazione civica e di diffusione delle informazioni. Allo stesso tempo, hanno posto nuove sfide in termini di gestione della reputazione, privacy e disinformazione.

Il commercio elettronico ha trasformato le dinamiche di acquisto e vendita, offrendo nuove opportunità alle imprese e ampliando le scelte dei consumatori. L’integrazione tra e-commerce, logistica e sistemi di pagamento ha permesso la nascita di ecosistemi digitali efficienti e scalabili, a vantaggio sia delle grandi aziende sia delle PMI.

La disponibilità di competenze digitali è stata condizione abilitante per il successo della trasformazione. Le imprese e la PA hanno dovuto investire nella formazione e nell’aggiornamento continuo del personale, per far fronte alla domanda crescente di profili specializzati: data analyst, sviluppatori, esperti di sicurezza, architetti di rete, specialisti cloud. La valorizzazione delle competenze ha anche richiesto l’adozione di framework condivisi, come quello AGID per la PA.

Il processo di digitalizzazione ha interessato in modo trasversale tutti i settori. Nella PA, l’e-government ha favorito l’accesso ai servizi, la trasparenza e la semplificazione amministrativa. Nell’industria, le iniziative 4.0 e 5.0 hanno incentivato l’adozione di tecnologie intelligenti e interconnesse, migliorando la qualità e la personalizzazione della produzione. Il settore bancario ha visto una rapida evoluzione verso il digital banking, con servizi online, app mobili e intelligenza artificiale per la gestione finanziaria. Le smart grids hanno integrato l’ICT nella gestione dell’energia, mentre lo sviluppo di reti ultra broadband ha costituito la base infrastrutturale per tutti i servizi innovativi (Figura 1).

Figura 1: le componenti principali della digitalizzazione di imprese e pubblica amministrazione.

Il benchmark dell’Italia nel mondo del digitale L’Italia ha mostrato un percorso di digitalizzazione non sempre omogeneo rispetto agli altri Paesi europei. Secondo gli indicatori del DESI (Digital Economy and Society Index) della Commissione Europea, l’Italia ha compiuto progressi significativi, in particolare nella connettività e nella digitalizzazione dei servizi pubblici, ma permangono ritardi nell’adozione delle tecnologie digitali da parte delle PMI e nel livello medio delle competenze digitali. Le politiche pubbliche, come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), hanno contribuito a colmare alcuni gap, ma sono necessari interventi strutturali per rendere il sistema più competitivo e inclusivo.

La trasformazione digitale non è un processo concluso, ma un’evoluzione continua che richiede visione strategica, investimenti mirati e una forte sinergia tra tecnologia, organizzazione e cultura. La lezione appresa negli ultimi venticinque anni è che la digitalizzazione non è fine a sé stessa, ma uno strumento per migliorare la qualità della vita, la competitività delle imprese e l’efficienza dei servizi pubblici. Solo un approccio sistemico e inclusivo potrà garantire che l’innovazione digitale diventi un volano di sviluppo sostenibile e di coesione sociale.

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Il ruolo e la dimensione del software nella trasformazione digitale

Iniziamo quindi dal software e in particolare dalle tre categorie con le quali, in genere si compone, ossia le applicazioni trasversali, o anche orizzontali, utilizzabili da ogni azienda per l’automazione dei processi chiave e per il posizionamento sul mercato e la gestione dei clienti, il software infrastrutturale, costituito ad esempio dai sistemi operativi e data base management systems, ed infine il software cosiddetto verticale costituito dalle applicazioni specifiche dei vari settori come la manifattura le utility le telecomunicazioni e altri ancora.

Nel 2024 il valore di mercato del Software, ossia delle infrastrutture, delle applicazioni come i sistemi Enterprise Resource Planning (ERP) e delle suites applicative specifiche per i vari segmenti di industria e di servizi ha superato i 1000 miliardi di $ di cui il 42 % nelle infrastrutture software, il 36 % nelle applicazioni e infine il 30% nei sistemi verticali. Le migliori previsioni indicano che in 4 anni supereremo i 1800 miliardi di $ con un tasso di crescita annuo (CAGR) del 13,6% con l’orizzonte del 2028.

Nella figura 2, la cui fonte è Gartner, si può apprezzare questo rilevante tasso di crescita che indica come il software, gli algoritmi, l’analisi dei dati siano sempre più adottati come base per la trasformazione della produzione, servizi e rapporto con i clienti a sostegno delle strategie delle aziende e dell’evoluzione dei servizi della Pubblica Amministrazione.

Per ciò che riguarda le componenti del comparto generale del Software, esse crescono della medesima percentuale, in particolare, il software applicativo cresce del 14,7%, il software infrastrutturale cresce del 13%, ed il software delle applicazioni verticali e specifiche per i vari settori cresce del 13,4%.

Figura 2: il ruolo e la dimensione del software nella trasformazione digitale.

Il software infrastrutturale ha fatto un percorso davvero notevole da quando comparvero, proprio 50 anni fa, i primi mainframe. In questa fase il software era strettamente legato all’hardware proprietario (IBM, DEC, Honeywell). I sistemi operativi come IBM OS/360 rappresentavano il cuore della gestione dei job batch, della memoria e dell’I/O. Nella successiva decade si presentarono i minicomputer i primi personal computer, il software infrastrutturale inizia ad aprirsi con UNIX (sviluppato nei Bell Labs), che diventa un riferimento per la portabilità e l’efficienza, e soprattutto con MS-DOS e i primi ambienti Windows che di fatto segnano l’avvio dell’informatica personale.

Negli anni ‘90, nella storia senza fine della centralizzazione o distribuzione della capacità elaborativa, si afferma l’architettura client – server: Windows NT, Linux, Solaris e altri sistemi operativi vengono adottati per gestire reti locali e servizi di base come file server, stampanti, autenticazione. Si diffondono middleware per l’interoperabilità e la gestione delle comunicazioni tra applicazioni (CORBA, DCOM, MQSeries).

Poi viene l’era della virtualizzazione con VMware che introduce la virtualizzazione commerciale, rivoluzionando il modo di gestire i datacenter. Linux si consolida come sistema operativo server. Open Source e software libero (Apache, MySQL, PostgreSQL) guadagnano centralità. Comincia l’era del Cloud che intorno al 2005, con Amazon Web Services e poi Azure e Google Cloud, propone il concetto di Infrastructure As A Service (IAAS) che evolve velocemente nei servizi cloud di Platform As A Services (PAAS) e poi ancora le applicazioni complete come servizi Software As A Services (SAAS).

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Parallelamente, strumenti come Docker e Kubernetes portano l’infrastruttura alla dimensione dei microservizi. DevOps e automazione diventano paradigmi di riferimento. Le infrastrutture diventano completamente software-defined: rete, storage, sicurezza. L’approccio Infrastructure as Code permette di automatizzare completamente il provisioning e la gestione. Le piattaforme cloud native dominano la scena.

Il ruolo dei servizi nella trasformazione digitale

Il Software, che abbiamo analizzato nel precedente paragrafo, è sempre accompagnato da Servizi. Infatti quando le aziende scelgono di implementare una nuova applicazione spesso richiedono servizi di consulenza, sia strategica che tecnologica, per poter scegliere adeguatamente tra le applicazioni disponibili quella più calzante per il proprio ambiente, successivamente, nell’ambito della implementazione, richiedono servizi di system integration infrastrutturale cioè la progettazione delle infrastrutture di data center o di connettività al cloud necessarie per implementare l’applicazione e poi servizi di system integration applicativa che accompagnano l’implementazione dell’applicazione software, l’integrazione con altri sistemi esistenti, il testing e poi il supporto per la formazione e l’avvio all’utilizzo dell’applicazioni implementata.

Nel 2024 il valore di mercato dei servizi, ossia la consulenza, l’integrazione e personalizzazione delle applicazioni, la system integration delle infrastrutture digitali, i servizi IAAS e quelli di Business Process Outsourcing (BPO) ha superato i 1600 miliardi di $ di cui il 22 % consulting, il 29 % nell’integrazione delle applicazioni, il 22 % nell’integrazione delle infrastrutture, il 10 % nei servizi IAAS e infine il 17 % nel Business Process Outsourcing. Le migliori previsioni indicano che in 4 anni supereremo i 2300 miliardi di $ con un tasso di crescita annuo (CAGR) del 9,6%.

Nella figura 3, la cui fonte è ancora Gartner, si può apprezzare questo rilevante tasso di crescita che indica come i servizi, dai quali dipende in larga misura la predisposizione delle grandi suites software per le aziende e la PA, siano una componente fondamentale per la trasformazione digitale.

Essi sono, molto spesso, una componente di prossimità che richiede vicinanza e integrazione con i processi dei clienti e che quindi richiede competenze e capacity locale. Dunque, anche nelle geografie come quella Europea, che sono meno presenti sulle infrastrutture digitali e sul software, è possibile e importante sviluppare competenze di implementazione e customizzazione che possono essere trampolino di lancio per la futura presenza, auspichiamo più consistente, nel mondo delle suites software di mercato.

Negli ultimi decenni i servizi IT hanno assunto un ruolo sempre più centrale nella trasformazione digitale, sia per le imprese private sia per la pubblica amministrazione. Questa crescita non è improvvisa, ma frutto di un’evoluzione lunga almeno trent’anni. Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila si è assistito alla forte espansione dell’outsourcing e dell’offshoring, con molte aziende che esternalizzavano intere funzioni IT per ragioni principalmente di riduzione dei costi. Successivamente, nel corso degli anni 2010, l’adozione sempre più diffusa del cloud computing ha trasformato radicalmente l’infrastruttura tecnologica, grazie ai nuovi modelli di erogazione come Infrastructure as a Service (IaaS), Platform as a Service (PaaS) e Software as a Service (SaaS). Questi modelli hanno permesso alle aziende di scalare rapidamente le risorse tecnologiche e di avviare progetti digitali con maggiore agilità. Negli anni più recenti, l’intelligenza artificiale, l’automazione e l’analisi avanzata dei dati hanno ulteriormente accelerato la domanda di servizi IT, spostando l’attenzione dalle sole attività operative verso una consulenza sempre più strategica e l’implementazione di soluzioni digitali complesse.

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Figura 3: il ruolo e la dimensione dei servizi nella trasformazione digitale.

In questo scenario globale, si sono affermati alcuni grandi protagonisti. Società come Accenture hanno assunto un ruolo guida nella consulenza e nei servizi IT a livello mondiale. IBM, da pioniere nell’outsourcing e nel cloud, ha continuato ad evolvere la propria offerta rivolta soprattutto al mercato enterprise. Le società indiane, come Tata Consultancy Services (TCS), Infosys e Wipro, hanno avuto un ruolo determinante nel rendere l’India uno dei principali hub globali per i servizi IT, offrendo una vasta gamma di soluzioni a clienti di ogni settore e dimensione. Accanto a questi attori, i grandi fornitori di infrastrutture cloud come Amazon Web Services, Microsoft Azure e Google Cloud hanno consolidato la loro posizione di leader nell’offerta di servizi IaaS e di piattaforme cloud sempre più integrate con tecnologie avanzate.

Oggi le aziende, per affrontare la complessità delle nuove tecnologie, si rivolgono sempre di più a servizi gestiti per l’amministrazione delle proprie infrastrutture e applicazioni, adottano strategie multi-cloud per diversificare i fornitori e garantire maggiore resilienza e affidabilità, e investono in soluzioni di sicurezza informatica sempre più sofisticate per far fronte al crescente numero di minacce cyber. L’importanza crescente dei servizi IT mette in evidenza quanto sia essenziale, per le organizzazioni pubbliche e private, definire strategie digitali solide e affidabili, scegliere partner tecnologici competenti e investire nelle competenze professionali necessarie per gestire il cambiamento tecnologico continuo.

L’evoluzione dei terminali nella trasformazione digitale

L’evoluzione dei terminali ha rappresentato un elemento chiave nella trasformazione digitale degli ultimi vent’anni. In particolare, i PC e gli smartphone hanno avuto un ruolo centrale nell’abilitare l’accesso continuo e diffuso ai servizi digitali, modificando profondamente le modalità di lavoro, comunicazione e fruizione dei contenuti.

Nel 2024 il valore di mercato dei terminali o devices, ossia gli smart phone, PC e Tablet ha superato i 730 miliardi di $ di cui il 68 % sono Smart Phone, il 25 % sono PC, il 7 % sono i Tablet, il cui mercato non ha mai raggiungo la dimensione inizialmente sperate. Le migliori previsioni indicano che nel 2028 ci avvicineremo ai 1000 miliardi di $ con un tasso di crescita annuo (CAGR) del 5,8%.

Nella figura 4, la cui fonte è Gartner, si può apprezzare questo rilevante tasso di crescita che indica come i device continuino a essere elementi molto importanti per la digitalizzazione. Molte applicazioni aziendali e siti della pubblica amministrazione hanno sviluppato nel tempo una fruibilità tramite opportune App che ha di fatto reso possibile una semplificazione dell’accesso, inserimento dati e esecuzione di transazioni.

Figura 4: il ruolo e la dimensione dei devices nella trasformazione digitale.

Prima dell’avvento degli smartphone moderni, un ruolo di assoluto rilievo nel mondo business fu ricoperto dal BlackBerry, prodotto dall’azienda canadese Research In Motion (RIM). Già a partire dai primi anni 2000, i dispositivi BlackBerry si distinsero per la loro capacità di gestire in modo efficiente la posta elettronica in mobilità, grazie a un sistema di push email particolarmente avanzato per l’epoca. Dotati di una tastiera fisica completa e di sistemi di sicurezza robusti, divennero rapidamente lo standard de facto per i professionisti, i manager e molte amministrazioni pubbliche, segnando una prima fase di digitalizzazione mobile centrata sulle comunicazioni aziendali. Il successo del BlackBerry dimostrò per la prima volta il valore strategico della connettività continua per il lavoro, ponendo le basi culturali e tecnologiche che avrebbero poi favorito l’accoglienza degli smartphone di nuova generazione.

La vera rivoluzione nel mondo dei dispositivi mobili ha preso avvio nel 2007 con l’introduzione del primo iPhone. Apple non si limitò a presentare un telefono più evoluto, ma propose un nuovo paradigma di utilizzo, incentrato su un’interfaccia touch intuitiva, la convergenza di più funzioni (telefono, browser, fotocamera, lettore multimediale) e, soprattutto, l’ecosistema delle applicazioni. L’anno successivo, il lancio dell’App Store aprì la strada alla creazione di un nuovo mercato per gli sviluppatori software, ampliando enormemente le possibilità d’uso degli smartphone e favorendo la nascita di intere filiere di servizi digitali mobili. Parallelamente, nel 2008, il debutto di Android con il primo modello HTC Dream segnò l’avvio della competizione nell’ambito dei sistemi operativi mobili, garantendo un’offerta diversificata che contribuì a un’adozione sempre più rapida su scala globale.

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Nei primi anni successivi a questa svolta, la crescita delle vendite fu rapidissima, passando da poche decine di milioni di unità ai circa 300 milioni di dispositivi venduti nel 2010. L’espansione proseguì impetuosamente soprattutto nei mercati emergenti, grazie anche all’arrivo di nuovi produttori che offrirono dispositivi a fasce di prezzo più accessibili. Samsung, in particolare, emerse come il principale concorrente di Apple, conquistando ampie quote di mercato con la fortunata serie Galaxy. Nel 2013, il mercato degli smartphone superò per la prima volta il miliardo di unità vendute in un solo anno, sancendo definitivamente il passaggio alla piena centralità di questi dispositivi nel panorama tecnologico globale.

Negli anni successivi, tra il 2016 e il 2020, il mercato degli smartphone entrò progressivamente in una fase di maturità, soprattutto nei Paesi sviluppati, dove la penetrazione aveva ormai raggiunto livelli prossimi alla saturazione. Il rallentamento del ciclo di sostituzione dei dispositivi, determinato anche dalla maggiore qualità e longevità degli smartphone, portò a una diminuzione della crescita. In questo periodo, emersero con forza i produttori cinesi come Xiaomi, Huawei, OPPO e Vivo, che seppero combinare innovazione tecnologica e prezzi competitivi, conquistando rilevanti quote di mercato a livello globale. In questa fase, le innovazioni divennero più incrementali che rivoluzionarie, puntando su miglioramenti delle fotocamere, dell’autonomia e delle prestazioni generali.

L’arrivo della pandemia nel 2020 provocò un temporaneo calo nelle vendite, dovuto alle incertezze economiche e logistiche, ma successivamente il mercato si è riassestato. Un elemento importante di rilancio è stato lo sviluppo delle reti 5G, che ha stimolato una nuova ondata di sostituzioni. Nello stesso periodo, il mercato ha vissuto un progressivo consolidamento, con la concentrazione della quota globale nelle mani di pochi grandi operatori. Parallelamente, è cresciuta l’attenzione verso la sostenibilità, la durata dei dispositivi e la possibilità di riparazione e aggiornamento, in risposta a una crescente sensibilità ambientale dei consumatori e alle nuove normative europee.

In sintesi, gli smartphone si sono trasformati da semplici strumenti di comunicazione in vere e proprie piattaforme personali per la gestione del lavoro, della socialità, dell’intrattenimento e della salute, divenendo uno dei pilastri fondamentali della digitalizzazione delle persone, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni.

Guardando al futuro, il mercato degli smartphone continuerà ad evolversi, pur con un ritmo di crescita più contenuto rispetto agli anni della sua esplosione iniziale. Oggi il numero di utenti globali ha superato i 6,5 miliardi, e il mercato appare sempre più segmentato tra dispositivi premium, dal prezzo crescente, e modelli di fascia economica. Nei prossimi anni, il completamento dell’adozione del 5G in tutte le fasce di prezzo, la diffusione su larga scala dei dispositivi pieghevoli e l’introduzione di funzionalità di intelligenza artificiale sempre più sofisticate direttamente sui dispositivi contribuiranno a mantenere elevata l’attenzione su questo settore. Gli smartphone tenderanno a diventare sempre più il fulcro di un ecosistema di dispositivi connessi, integrandosi con wearables, sensori domestici e strumenti professionali. Nel medio termine, ci si attende un progressivo superamento dei tradizionali confini tra smartphone e computer, grazie a nuovi fattori di forma come gli arrotolabili o i modulari, a fotocamere dalle prestazioni quasi professionali e a una maggiore capacità computazionale. Guardando ancora più avanti, oltre il 2030, lo smartphone potrebbe progressivamente cedere il passo a nuove tipologie di dispositivi indossabili, sempre più leggeri e integrati, arricchiti da interfacce neurali e gestuali avanzate, dall’integrazione con realtà aumentata e virtuale e da innovazioni nelle batterie e nei sistemi di ricarica wireless a distanza. In questo scenario, l’innovazione continuerà a essere presente ma più incrementale, con poche rivoluzioni paragonabili a quella innescata dall’iPhone nel 2007.

I pilastri della trasformazione digitale: sistemi ERP e CRM

L’evoluzione dei sistemi ERP (Enterprise Resource Planning) ha avuto inizio negli anni Sessanta con i primi sistemi MRP (Material Requirements Planning), sviluppati per ottimizzare la gestione delle scorte e la pianificazione della produzione nelle imprese manifatturiere.

Negli anni Ottanta, questi sistemi si sono evoluti in MRP II, estendendo le funzionalità anche alla pianificazione delle risorse aziendali, integrando aspetti come la contabilità e la gestione del personale. Coniato da Gartner negli anni Novanta, il termine ERP ha definito la nuova generazione di sistemi in grado di integrare in un’unica piattaforma tutti i principali processi aziendali, tra cui finanza, vendite, logistica, produzione, acquisti e risorse umane. A partire dagli anni Duemila, con la diffusione di Internet, gli ERP hanno ulteriormente ampliato il proprio raggio d’azione verso l’esterno dell’azienda, includendo funzionalità di gestione della supply chain, delle relazioni con i clienti (CRM) e strumenti di business intelligence per l’analisi dei dati. Nell’ultimo decennio l’introduzione del cloud computing e, più recentemente, dell’intelligenza artificiale, ha trasformato ulteriormente questi sistemi, rendendoli accessibili da remoto, più flessibili, scalabili e in grado di offrire funzionalità avanzate di automazione, previsione e supporto alle decisioni. I moderni ERP rappresentano oggi il cuore digitale delle imprese, supportando in modo integrato ed efficiente l’intera catena del valore aziendale.

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Il mercato mondiale dei sistemi ERP ha registrato negli ultimi anni una crescita continua e significativa, raggiungendo oggi un valore di circa 50 miliardi di dollari per quanto riguarda le sole licenze software, mentre considerando anche i servizi collegati, come la consulenza, l’integrazione, la formazione e la manutenzione, il valore complessivo del mercato supera i 150 miliardi di dollari. Le previsioni per i prossimi cinque anni indicano un tasso di crescita annuo medio intorno al 12%, sostenuto sia dalla continua adozione nelle economie emergenti sia dai processi di aggiornamento e migrazione verso soluzioni cloud e intelligenti nelle economie più mature. L’adozione dei sistemi ERP ha ormai raggiunto livelli molto elevati nelle grandi imprese, dove supera il 90%, mentre nelle imprese di medie dimensioni si attesta attualmente intorno al 60%, con una tendenza costante all’aumento man mano che i costi di accesso diminuiscono e le soluzioni diventano più flessibili anche per realtà con risorse più contenute.

Tutto questo è sintetizzato nella figura 5, assieme agli analoghi elementi per i sistemi CRM.

Figura 5: il ruolo e la dimensione delle applicazioni ERP e CRM nella trasformazione digitale.

Il Customer Relationship Management, più noto con l’acronimo CRM, rappresenta una delle applicazioni fondamentali che hanno accompagnato e sostenuto la trasformazione digitale delle imprese negli ultimi decenni. La sua evoluzione è strettamente legata ai cambiamenti tecnologici, ai nuovi modelli di business e alla crescente centralità del cliente come perno attorno al quale ruotano tutte le attività aziendali.

Nella sua fase iniziale, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, il CRM nasce essenzialmente come un sistema informatico per la gestione anagrafica dei clienti e per il supporto alle attività commerciali. In questo periodo le aziende, soprattutto nei settori bancario, assicurativo e dei beni di largo consumo, iniziano a informatizzare i propri database clienti per gestire contatti, cronologie di acquisto e informazioni basilari. I sistemi erano principalmente on-premise, sviluppati su misura o basati su software proprietari, e destinati prevalentemente ai reparti vendite. L’obiettivo principale era quello di conservare in modo centralizzato i dati dei clienti, in modo che i commerciali potessero accedere a informazioni aggiornate prima di ogni visita o trattativa.

Nel corso degli anni ’90 e nei primi anni 2000, l’avvento di Internet e il miglioramento delle infrastrutture IT permisero un’evoluzione importante del concetto di CRM. I sistemi iniziarono ad integrare non solo le vendite, ma anche il marketing e il customer service. Le aziende iniziarono a utilizzare il CRM per gestire campagne di marketing, monitorare le pipeline commerciali, strutturare i processi di prevendita e postvendita, oltre che per offrire un’assistenza clienti più strutturata e tempestiva. In questa fase emergono i primi grandi vendor internazionali di CRM come Siebel Systems, che per alcuni anni rappresentò lo standard di riferimento nelle grandi organizzazioni.

Con il progredire della tecnologia cloud nella seconda metà degli anni 2000, il CRM compie un salto decisivo. Nasce il modello Software-as-a-Service (SaaS), che permette alle aziende di accedere ai sistemi CRM senza dover investire pesantemente in infrastrutture IT interne. Salesforce, fondata proprio con questa visione, diventa il principale protagonista del mercato mondiale, proponendo un CRM completamente cloud-based, scalabile e aggiornabile in tempo reale. Questo approccio democratizza l’adozione del CRM anche tra le piccole e medie imprese, abbattendo le barriere di costo e di complessità gestionale.

Nel decennio successivo, con l’avvento dei big data, dell’intelligenza artificiale e dell’integrazione multicanale, il CRM si trasforma ancora una volta in una piattaforma centrale all’interno dell’impresa digitale. Le aziende iniziano ad arricchire i profili cliente non solo con dati transazionali, ma anche con informazioni comportamentali, social, geolocalizzate e predittive. Le funzionalità di business intelligence diventano sempre più sofisticate, consentendo analisi puntuali sui clienti, sulla probabilità di acquisto, sulla propensione all’abbandono o sulla soddisfazione del servizio ricevuto.

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Oggi il CRM rappresenta un’infrastruttura critica per moltissime aziende, non solo nei settori B2B, ma anche in quelli B2C, nei servizi, nel retail, nella sanità e nella pubblica amministrazione. Le funzioni che incorpora sono ormai molto estese e integrate lungo tutta la customer journey. La gestione dei contatti e degli account costituisce ancora il nucleo centrale, garantendo una visione completa e condivisa dei clienti a tutti i livelli aziendali. Intorno a questo nucleo, i moduli di gestione della pipeline commerciale e delle opportunità consentono di monitorare in tempo reale l’intero ciclo di vendita, dal primo contatto fino alla chiusura della trattativa. Le campagne di marketing, alimentate da segmentazioni sempre più raffinate, possono essere automatizzate e personalizzate, sfruttando l’intelligenza artificiale per ottimizzare tempi, canali e contenuti. I moduli dedicati al listino prodotti e ai preventivi consentono di gestire configurazioni complesse di offerta e pricing, spesso integrate con i sistemi ERP aziendali.

Un’area in forte espansione riguarda il customer service multicanale, che oggi integra chiamate vocali, email, chat, social media e chatbot in un’unica console di gestione, garantendo tempi di risposta rapidi e uniformità nel trattamento delle richieste. I chatbot e gli assistenti virtuali stanno assumendo un ruolo crescente, grazie ai progressi del linguaggio naturale, offrendo un primo livello di supporto disponibile 24 ore su 24 e alleggerendo il carico degli operatori umani. L’integrazione della business intelligence permette infine di misurare in maniera sistematica la soddisfazione dei clienti, individuare pattern di comportamento e alimentare previsioni affidabili sui futuri bisogni e sulle azioni commerciali più opportune.

Il mercato attuale del CRM è dominato da alcuni grandi player globali come Salesforce, Microsoft Dynamics 365, SAP Customer Experience, Oracle CX e HubSpot, ma esistono anche numerosi operatori specializzati su nicchie verticali o destinati alle PMI. La competizione si gioca oggi sulla capacità di offrire soluzioni modulari, aperte all’integrazione, supportate dall’intelligenza artificiale e capaci di fornire insight utili in tempo reale ai diversi livelli decisionali dell’impresa.

Guardando al futuro, il CRM continuerà ad evolversi lungo due direttrici principali. Da un lato, vedremo una sempre maggiore automazione dei processi grazie all’uso estensivo di AI generativa, modelli predittivi e automazione conversazionale. Dall’altro, il tema della data privacy e dell’etica nell’utilizzo dei dati clienti diventerà sempre più centrale, spingendo le aziende a bilanciare personalizzazione e rispetto della normativa, soprattutto in ambito europeo con il GDPR e le future regolamentazioni sull’intelligenza artificiale. In questa prospettiva, il CRM non sarà più soltanto uno strumento di gestione, ma sempre più una piattaforma decisionale e predittiva, capace di orientare in modo dinamico le strategie di vendita, marketing e servizio al cliente, allineandole costantemente ai comportamenti reali dei clienti e ai rapidi mutamenti dei mercati.

I pilastri della trasformazione digitale: l’open source

L’open source rappresenta uno dei pilastri fondamentali della digitalizzazione moderna, al pari delle grandi piattaforme cloud, delle applicazioni enterprise, dei social media e delle infrastrutture di rete. La sua importanza deriva dal fatto che ha consentito, fin dalle origini, di democratizzare l’accesso alle tecnologie, accelerare l’innovazione e diffondere competenze tecniche a scala globale. Grazie alla disponibilità del codice sorgente, l’open source ha permesso a imprese, pubbliche amministrazioni e sviluppatori indipendenti di sperimentare, adattare e personalizzare soluzioni tecnologiche avanzate, riducendo sensibilmente i costi di licenza e abbattendo le barriere all’ingresso per molti soggetti che altrimenti non avrebbero potuto accedere a certi strumenti.

La storia dell’open source inizia negli anni Ottanta con un forte impulso etico e accademico. In quel periodo, figure come Richard Stallman e la Free Software Foundation pongono le basi del software libero, affermando i principi della libertà di utilizzo, modifica e redistribuzione del codice. Nascono progetti come il compilatore GCC e gli strumenti GNU, che preparano il terreno per le grandi evoluzioni successive. Negli anni Novanta, l’open source assume una fisionomia più pragmatica e industriale, grazie alla nascita del kernel Linux e del server web Apache. Nel 1998 nasce formalmente il movimento “Open Source Initiative” con l’obiettivo di rendere questo modello compatibile con il mondo del business, stimolando le prime adozioni aziendali e la nascita di realtà commerciali che iniziano a costruire modelli di business sostenibili attorno a software aperti.

Nei primi anni Duemila, l’open source entra con forza nei data center aziendali e nei servizi pubblici. Linux diventa progressivamente lo standard per i server, MySQL si diffonde come database relazionale alternativo, Firefox sfida il monopolio dei browser proprietari, mentre nascono le prime distribuzioni Linux orientate alle imprese, come Red Hat e SUSE. Parallelamente, iniziano a diffondersi i primi modelli commerciali su base open core, dove una parte del software resta aperta e una parte viene proposta come servizio a pagamento, garantendo così supporto, scalabilità e sicurezza alle imprese utilizzatrici.

Il grande salto avviene negli anni 2010 con la diffusione del cloud computing e dei big data. In questo decennio l’open source diventa l’infrastruttura tecnica sulla quale poggiano le nuove architetture digitali globali. Nascono progetti come OpenStack per il cloud privato, Kubernetes per l’orchestrazione dei container, Hadoop e Spark per il trattamento dei grandi volumi di dati distribuiti. L’open source entra anche nel cuore dell’intelligenza artificiale con la pubblicazione di framework come TensorFlow e PyTorch. I grandi attori del settore, come Google, Microsoft, Amazon e Facebook, non solo adottano tecnologie open, ma iniziano anche a rilasciare come open source i loro stessi framework, innescando così un ciclo virtuoso di sviluppo comunitario e industriale. Negli anni più recenti, l’open source si è trasformato in un vero asset strategico su scala geopolitica. Il suo ruolo va ben oltre l’aspetto tecnologico e commerciale.

Sempre più governi e organizzazioni sovranazionali, come l’Unione Europea, riconoscono l’open source come leva fondamentale per la sovranità digitale. In un mondo caratterizzato da forti concentrazioni di potere tecnologico in poche grandi multinazionali, il software open source offre ai Paesi la possibilità di mantenere il controllo sulle proprie infrastrutture digitali critiche, garantendo trasparenza, auditabilità del codice e capacità di intervento autonomo senza vincoli di vendor lock-in. Iniziative come Gaia-X, FIWARE, il progetto europeo per il Cloud Sovrano, così come la costituzione di Open Source Program Office (OSPO) nelle amministrazioni pubbliche, sono tutte manifestazioni concrete di questa strategia.

Oggi i principali progetti open source coprono tutte le aree strategiche della digitalizzazione. Nelle infrastrutture troviamo Linux, Kubernetes, OpenStack, Ceph e Terraform. Nei dati emergono PostgreSQL, MariaDB, MongoDB, Cassandra, ElasticSearch e InfluxDB. Nell’intelligenza artificiale dominano PyTorch, TensorFlow e Hugging Face. Nell’IoT sono centrali piattaforme come ThingsBoard, EdgeX Foundry, Kura e Zephyr OS. In ambito sicurezza si distinguono Suricata, OpenVPN e Let’s Encrypt, mentre nella collaborazione e produttività si affermano soluzioni come Nextcloud, GitLab e Mattermost.

Figura 6: il ruolo e la dimensione dei sistemi Open Source nella trasformazione digitale.

L’economia open source rappresenta ormai un mercato maturo e in crescita, con aziende quotate in borsa, grandi operatori cloud che generano miliardi di fatturato su tecnologie open e un indotto vastissimo di servizi di consulenza, formazione, supporto e managed services. Le competenze tecniche sul software open source sono oggi una delle risorse professionali più richieste, sia per le imprese private che per le pubbliche amministrazioni. Investire nella formazione su queste tecnologie significa quindi non solo creare innovazione interna, ma anche rafforzare la capacità di un Paese di presidiare le proprie infrastrutture critiche e partecipare attivamente ai grandi tavoli di standardizzazione e sviluppo globale.

In definitiva, l’open source è passato dall’essere un movimento di nicchia a diventare il substrato infrastrutturale dell’intera economia digitale. Il suo futuro sarà sempre più legato alla capacità dei sistemi Paese e delle imprese di governare, contribuire e valorizzare questi asset comuni, facendone uno strumento di autonomia tecnologica, competitività e sicurezza nazionale.

I pilastri della trasformazione digitale: social e e-commerce

I social e l’e-commerce, sono le due tendenze che più di altre hanno determinato una fortissima accelerazione nella digitalizzazione diffusa: persone, imprese e pubbliche amministrazioni.

Negli ultimi vent’anni, l’e-commerce ha assunto un ruolo centrale nella trasformazione digitale delle imprese e, in parte, anche della Pubblica Amministrazione. Sin dagli inizi degli anni 2000, le imprese hanno progressivamente avviato l’esposizione dei propri cataloghi di prodotti e servizi online, dapprima realizzando siti e-commerce proprietari e successivamente affidandosi sempre di più anche ai grandi marketplace internazionali come Amazon, Alibaba, eBay e altri. Questo processo ha profondamente modificato non solo le modalità operative di vendita, ma anche la struttura competitiva dei mercati, favorendo l’accesso a clienti globali e portando a una profonda ridefinizione della logistica, della supply chain, della gestione del cliente e dell’analisi dei dati.

L’e-commerce si è affermato fin dagli anni 2005-2010 come uno dei pilastri della digitalizzazione, grazie all’ampliamento della banda larga, alla comparsa delle prime piattaforme software dedicate e all’evoluzione iniziale dei pagamenti digitali sicuri. In questa fase si sono consolidati operatori come Amazon e sono nate esperienze verticali come Zalando o Yoox, mentre PayPal si affermava come strumento di pagamento di riferimento per le prime generazioni di acquirenti online.

Nel quinquennio successivo, dal 2010 al 2015, la diffusione degli smartphone e il mobile commerce hanno accelerato la trasformazione. Il commercio elettronico è divenuto progressivamente mobile-first, integrando le esperienze utente con app dedicate e sistemi di pagamento nativi per dispositivi mobili. Parallelamente, le grandi piattaforme hanno perfezionato il modello dei marketplace, con Amazon che ha lanciato Prime e Alibaba che ha esteso la sua leadership nei mercati asiatici. In questa fase sono anche nate le prime forme embrionali di social commerce, con l’integrazione delle funzionalità di acquisto sui social media.

Tra il 2015 e il 2020 si è assistito a una fase di consolidamento tecnologico e commerciale. L’e-commerce è divenuto una componente strutturale dei piani di business delle aziende, con un utilizzo massiccio di tecnologie cloud, big data e intelligenza artificiale per la personalizzazione dell’offerta. Si sono rafforzati modelli omnicanale, capaci di integrare negozio fisico e vendita online, mentre sono comparse nuove piattaforme abilitanti come Shopify, che hanno consentito anche a PMI e brand emergenti di posizionarsi con forza nel commercio elettronico globale.

Il periodo 2020-2025 è stato caratterizzato da un’accelerazione eccezionale legata anche alla pandemia di COVID-19, che ha spinto imprese e consumatori verso l’e-commerce come canale privilegiato e in alcuni casi unico per l’acquisto di beni e servizi. Si sono affermati in questo periodo i modelli di quick commerce per la consegna ultraveloce, l’e-commerce di prossimità, nuove modalità di pagamento come il “Buy Now Pay Later” e l’integrazione avanzata dell’intelligenza artificiale per il supporto all’acquisto, la logistica e il marketing predittivo.

L’e-commerce globale ha raggiunto nel 2024 un valore di mercato di oltre 5.800 miliardi di dollari e si prevede che possa superare gli 8.000 miliardi entro il 2029. In Italia, il mercato ha superato i 54 miliardi di euro nel 2023 con una crescita continua a doppia cifra, pur restando su volumi inferiori ai mercati più maturi del Nord Europa, degli Stati Uniti e dell’Asia.

Parallelamente, un fenomeno sempre più rilevante che ha affiancato l’e-commerce tradizionale è il social commerce, ovvero l’acquisto diretto tramite piattaforme social come Instagram, TikTok, Facebook e YouTube. Si tratta di un’evoluzione che unisce intrattenimento e commercio, resa possibile dal ruolo crescente dei creator e degli influencer, capaci di indirizzare i comportamenti d’acquisto in modo sempre più efficace. Il social commerce ha superato nel 2024 i 1.200 miliardi di dollari a livello globale e potrebbe triplicare entro la fine del decennio. TikTok in particolare ha imposto nuovi paradigmi con i suoi modelli di vendita live e con il coinvolgimento diretto dei creator nella promozione di prodotti durante le sessioni di live shopping. Anche in Italia il fenomeno è in forte espansione, soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione.

Se guardiamo le dinamiche economico-finanziarie di questa trasformazione, emerge con chiarezza come i principali player tecnologici e di piattaforme social abbiano costruito modelli di business fortemente sostenuti dai ricavi pubblicitari, spesso superiori al 90% delle revenues complessive. Meta (con Facebook, Instagram e WhatsApp) ha registrato nel 2024 oltre 134 miliardi di dollari di ricavi, Alphabet (con Google e YouTube) ha superato i 340 miliardi, mentre TikTok ha raggiunto i 20 miliardi, con un tasso di crescita vertiginoso. Anche le piattaforme come Snapchat, Pinterest, X (ex Twitter) e LinkedIn, pur su numeri più contenuti, mantengono la pubblicità online come asse portante delle entrate.

Tuttavia, negli ultimi due-tre anni si osserva anche un’importante crescita del capitale investito (CAPEX), destinato soprattutto allo sviluppo delle infrastrutture cloud, dei data center e delle piattaforme di intelligenza artificiale. Il rapporto CAPEX su ricavi per i grandi gruppi varia dal 13% di Amazon e ByteDance, al 22% di Microsoft, al 29% di Meta, mentre Google si attesta intorno al 14%. Apple, pur avendo numeri assoluti imponenti, mantiene un profilo di investimento in conto capitale molto più contenuto, intorno al 2,5% dei ricavi, a testimonianza di un modello maggiormente fondato sull’efficienza operativa e sulla marginalità di prodotto. Sul piano dell’EBITDA, i margini restano molto elevati per i grandi player del digitale: Microsoft, Meta, Alphabet e Apple registrano margini operativi compresi tra il 35% e il 53%, dimostrando la forte profittabilità dei modelli digitali maturi.

In conclusione, il percorso evolutivo dell’e-commerce e dei suoi ecosistemi associati — marketplace, social commerce, mobile commerce, cloud e AI — rappresenta oggi uno dei cardini della trasformazione digitale globale e continuerà a produrre effetti strutturali sia nei modelli di business privati sia nella qualità e disponibilità dei servizi per i cittadini e le imprese.

Queste riflessioni ci conducono ad analizzare il fenomeno dei social network. Nel corso degli ultimi vent’anni, l’evoluzione dei social network ha rappresentato uno dei fenomeni più significativi e pervasivi nella trasformazione digitale globale, ridefinendo le modalità di comunicazione personale, di accesso alle informazioni, di marketing, di interazione politica e culturale. La crescita degli utenti di queste piattaforme è stata impressionante: Facebook, partito nel 2004 con circa un milione di utenti, ha superato i tre miliardi di utenti attivi mensili nel 2024. YouTube, lanciato nel 2005, ha oggi oltre 2,7 miliardi di utenti attivi. Altri protagonisti della scena come WhatsApp e Instagram hanno raggiunto rispettivamente circa due miliardi di utenti, mentre TikTok ha registrato un’ascesa straordinaria, conquistando un miliardo di utenti in soli cinque anni dalla sua nascita.

Questa espansione non è avvenuta in modo uniforme ma ha seguito diverse fasi. Nei primi anni, tra il 2004 e il 2010, i social media hanno visto una diffusione iniziale concentrata nei mercati occidentali e tra i giovani, con una forte componente di early adopters e appassionati di tecnologia. L’acquisizione di YouTube da parte di Google e la rapida crescita di Facebook hanno segnato i primi consolidamenti del settore. Successivamente, tra il 2010 e il 2015, la diffusione globale ha trovato terreno fertile nei mercati emergenti, supportata dall’esplosione della connettività mobile e dalla progressiva disponibilità di smartphone a basso costo, che hanno abbattuto le barriere tecnologiche d’accesso. In questi anni, piattaforme come Instagram e WhatsApp, poi acquisite da Facebook, hanno visto una crescita impetuosa.

A partire dal 2015, la crescita nei mercati maturi ha iniziato a rallentare, mentre l’attenzione si è spostata sulla diversificazione dei contenuti e sulla segmentazione delle audience. L’emergere di nuove piattaforme come TikTok ha intercettato fasce demografiche più giovani, proponendo nuovi modelli di fruizione basati su video brevi, algoritmi di raccomandazione sofisticati e una forte componente di creatività virale. Oggi, oltre il sessanta per cento della popolazione mondiale utilizza almeno un social network e il tempo medio trascorso quotidianamente su queste piattaforme supera abbondantemente le due ore per utente. Stiamo assistendo a una fase di consolidamento in cui l’engagement degli utenti, più che la sola crescita numerica, è diventato il parametro centrale per il successo delle piattaforme.

Diversi fattori hanno alimentato questa crescita senza precedenti: l’accesso facilitato tramite smartphone, il miglioramento continuo delle reti di telecomunicazione con l’introduzione del 4G e del 5G, il cosiddetto network effect che rende le piattaforme più attrattive all’aumentare degli utenti, l’innovazione continua nelle funzionalità proposte e l’espansione nei mercati emergenti che ha garantito una platea globale sempre più ampia. Il risultato complessivo è stato un cambiamento profondo e strutturale nella società digitale contemporanea.

All’interno di questo scenario generale, LinkedIn rappresenta un caso specifico e distinto. Nato nel 2003 su iniziativa di Reid Hoffman e del suo gruppo, LinkedIn ha sin dall’inizio perseguito un posizionamento diverso, orientato alla costruzione di reti professionali e allo sviluppo di opportunità di lavoro piuttosto che al puro intrattenimento sociale. La crescita iniziale è stata progressiva, raggiungendo un milione di utenti nel 2004 e venticinque milioni nel 2008. A partire dal 2011, con l’ingresso in Borsa e una serie di acquisizioni strategiche, la piattaforma ha ampliato il proprio raggio d’azione includendo contenuti professionali, strumenti di pubblicazione e, con l’acquisizione di Lynda.com, anche offerte formative.

L’acquisizione di LinkedIn da parte di Microsoft nel 2016 per oltre ventisei miliardi di dollari ha segnato una svolta decisiva. L’integrazione con l’ecosistema Microsoft, in particolare con le suite Office 365 e Dynamics, ha ulteriormente consolidato la piattaforma come riferimento globale per il networking e la formazione professionale. Durante la pandemia di COVID-19, LinkedIn ha registrato un’accelerazione significativa, fungendo da spazio privilegiato per la ricerca di lavoro, il recruiting e l’apprendimento a distanza in un periodo di grande transizione per il mercato del lavoro globale.

Ad oggi, LinkedIn conta quasi un miliardo di utenti registrati, con oltre trecento milioni di utenti attivi mensili distribuiti in più di duecento paesi. La sua demografia è prevalentemente costituita da professionisti tra i venticinque e i cinquantaquattro anni, con una crescente partecipazione di giovani neolaureati e lavoratori all’inizio della carriera. Il modello di business si articola su più direttrici: abbonamenti premium, servizi di recruiting per le aziende, pubblicità sponsorizzata, offerte formative attraverso LinkedIn Learning e servizi avanzati di lead generation B2B. I ricavi annuali di LinkedIn si attestano oggi intorno ai quattordici-quindici miliardi di dollari, contribuendo significativamente ai ricavi cloud di Microsoft.

Guardando al futuro, LinkedIn appare intenzionato a rafforzare ulteriormente il proprio ruolo come piattaforma globale per l’identità professionale digitale, potenziando le capacità di matching fra domanda e offerta di lavoro attraverso l’intelligenza artificiale, ampliando l’offerta formativa e sviluppando nuovi servizi rivolti ai lavoratori autonomi e al mercato freelance. Tuttavia, dovrà anche fronteggiare sfide importanti legate alla qualità dei contenuti, alla gestione dei dati professionali, alla competizione con piattaforme specialistiche e alla capacità di mantenere alto il livello di engagement degli utenti. In sintesi, l’evoluzione dei social network ha accompagnato e in molti casi guidato i processi di digitalizzazione su scala globale. Piattaforme generaliste e reti professionali come LinkedIn hanno avuto un ruolo centrale nel ridefinire non solo i meccanismi di comunicazione e informazione, ma anche l’intero ecosistema del lavoro, dell’impresa e delle relazioni sociali nell’era digitale.

Figura 7: il ruolo delle Piattaforme Social e E-commerce nella trasformazione digitale.

I pilastri della trasformazione digitale: le piattaforme di collaboration

Negli ultimi venticinque anni, il mercato delle suite per ufficio e del software di collaborazione ha rappresentato uno degli assi portanti della digitalizzazione sia nelle imprese che nella pubblica amministrazione. In questo contesto, Microsoft ha assunto un ruolo di leader indiscusso, costruendo un ecosistema capace di integrare produttività individuale, collaborazione di team e servizi cloud, influenzando profondamente i modelli organizzativi e le modalità operative.

Secondo le stime più recenti, il mercato globale delle suite per ufficio e della collaborazione ha raggiunto nel 2023-2024 un valore compreso tra 56 e 60 miliardi di dollari. Microsoft continua a detenere una quota dominante: nelle suite tradizionali per ufficio la sua quota si attesta intorno all’85-90%, mentre nei servizi cloud-based la sua piattaforma Microsoft 365 copre circa il 45-50% del mercato, seguita da Google Workspace con una quota variabile tra il 15% e il 20%. Le prospettive future indicano una crescita robusta, con un tasso annuo composto stimato tra il 10% e il 12%, che potrebbe portare il mercato a superare i 100 miliardi di dollari entro il 2030, trainato soprattutto dalle soluzioni SaaS in abbonamento e dal consolidamento dei modelli cloud.

L’evoluzione di queste piattaforme ha seguito un percorso ben definito. Nel primo decennio degli anni 2000, la produttività era ancora legata principalmente a software desktop. Microsoft Office consolidava il proprio predominio integrando applicazioni come Word, Excel, PowerPoint e Outlook, introducendo innovazioni rilevanti come l’interfaccia Ribbon e i formati Office Open XML, che migliorarono interoperabilità e compattezza dei file. In quegli anni si assisteva anche ai primi tentativi di collaborazione online, con il debutto di Google Docs nel 2006 e delle prime versioni di Office Web Apps nel 2010, che però offrivano funzionalità collaborative ancora limitate. La svolta significativa si è avuta nel decennio successivo, tra il 2010 e il 2020, quando la diffusione del cloud computing e della mobilità ha trasformato radicalmente il concetto stesso di suite per ufficio. Con il lancio di Office 365 nel 2011, si inaugurò la transizione dai modelli di licenza perpetua agli abbonamenti SaaS, consentendo la fruizione degli strumenti di produttività su qualsiasi dispositivo e piattaforma. Le funzionalità di collaborazione in tempo reale si sono progressivamente affinate, consentendo a più utenti di lavorare simultaneamente su documenti condivisi. Microsoft Teams, lanciato nel 2017, ha ulteriormente esteso il perimetro della collaborazione integrando messaggistica, videoconferenze e gestione di progetti in un unico ambiente. In parallelo, l’integrazione di strumenti di automazione come Flow (diventato poi Power Automate) e la piena sinergia con OneDrive e SharePoint hanno reso l’ambiente Microsoft 365 un vero e proprio hub collaborativo e informativo per le organizzazioni.

Negli anni più recenti, dal 2020 al 2025, l’intelligenza artificiale ha cominciato a ridefinire ulteriormente le funzionalità delle suite collaborative. Assistenti AI come Microsoft Copilot e le analoghe soluzioni di Google sono stati integrati in maniera pervasiva in tutte le applicazioni di produttività, suggerendo contenuti, automatizzando la redazione di documenti e supportando l’analisi dei dati. Le piattaforme si sono adattate alle esigenze del lavoro ibrido, con strumenti pensati per gestire team distribuiti, integrando app di terze parti e offrendo nuove forme di monitoraggio e ottimizzazione della produttività tramite applicazioni come Viva e MyAnalytics. Anche l’attenzione alla sicurezza è aumentata, con funzionalità avanzate di protezione dei dati, gestione delle identità, classificazione automatica dei documenti sensibili e strumenti integrati di conformità normativa, in risposta alle crescenti esigenze di governance delle informazioni. Nel 2025, le suite di collaboration moderne si presentano ormai come ambienti integrati e intelligenti, capaci di coprire un ampio spettro di funzioni.

I software di elaborazione testi offrono strumenti avanzati di formattazione, suggerimenti AI personalizzati e gestione sofisticata delle versioni. I fogli di calcolo integrano funzionalità predittive, analisi dati potenziate da algoritmi di intelligenza artificiale e collegamenti diretti a fonti dati esterne. Le presentazioni sono supportate da suggerimenti di design automatici, integrazione di contenuti dinamici e funzionalità evolute per la presentazione remota. La collaborazione in tempo reale è oggi nativamente integrata con chat contestuali, indicatori di presenza nei documenti, videoconferenze e strumenti di gestione delle attività, il tutto con la possibilità di creare flussi di lavoro personalizzati e automatizzati che si integrano con altri sistemi aziendali come CRM, ERP e marketplace applicativi.

In sintesi, le suite collaborative hanno compiuto un lungo percorso, trasformandosi da semplici applicazioni desktop per la produttività individuale in piattaforme digitali complete, che oggi costituiscono l’infrastruttura operativa fondamentale per il lavoro flessibile, il coordinamento di gruppi distribuiti e la valorizzazione intelligente delle informazioni aziendali.

I pilastri della trasformazione digitale: le competenze

Nel percorso della trasformazione digitale, il tema delle competenze digitali riveste un ruolo assolutamente centrale e strategico. Senza il capitale umano in grado di comprendere, utilizzare e governare le tecnologie digitali, le stesse innovazioni rischiano di rimanere potenzialità inespresse, incapaci di generare il valore atteso per imprese, pubbliche amministrazioni e cittadini. La digitalizzazione non è mai soltanto una questione tecnologica: è, soprattutto, una sfida di competenze.

Le competenze digitali si articolano oggi lungo un ampio spettro, che va dalle competenze di base, indispensabili per tutti, fino alle competenze avanzate richieste ai professionisti ICT. Nelle prime rientrano la capacità di navigare e cercare informazioni affidabili in rete, utilizzare con efficacia la posta elettronica e gli strumenti di videoconferenza, ormai divenuti il canale ordinario di comunicazione lavorativa, così come l’utilizzo consapevole dei programmi di produttività come word processor, fogli elettronici, presentazioni e strumenti di collaborazione online. In questa fascia di competenze di base si colloca anche l’educazione alla sicurezza digitale personale, che comprende la gestione sicura delle password, il riconoscimento di tentativi di phishing e la consapevolezza nell’uso dei propri dati personali.

Accanto a queste capacità trasversali, vi sono le competenze specialistiche richieste a chi lavora direttamente nel settore ICT o governa progetti di trasformazione digitale nelle aziende e nelle amministrazioni. In questo ambito, lo sviluppo software rappresenta ancora oggi uno dei cuori delle professionalità digitali, con linguaggi come Java e Python che restano tra i più richiesti dal mercato. A questi si affianca la necessità sempre più diffusa di padroneggiare l’utilizzo delle piattaforme cloud, sia pubbliche che private, che ormai costituiscono l’infrastruttura su cui poggiano la maggior parte dei servizi e delle applicazioni digitali.

Negli ultimi anni, l’accelerazione dell’intelligenza artificiale ha aperto un nuovo fronte di competenze emergenti. Machine learning, analisi predittiva, elaborazione del linguaggio naturale e computer vision richiedono figure professionali capaci non solo di utilizzare gli algoritmi e gli strumenti disponibili, ma anche di comprenderne i limiti, i rischi e le implicazioni etiche e regolamentari.

Il fabbisogno di queste competenze digitali continua a crescere a un ritmo molto superiore rispetto all’offerta formativa disponibile. In Europa, secondo i dati della Commissione Europea, il 55% della popolazione adulta possiede oggi competenze digitali di base, mentre l’obiettivo al 2030 è di portare questa percentuale almeno all’80%. In Italia la situazione è ancora più sfidante: solo il 46% della popolazione tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base e il nostro Paese si colloca al 24° posto su 27 nel ranking europeo del capitale umano digitale. Per quanto riguarda i professionisti specializzati, l’Unione Europea punta a raggiungere entro il 2030 i 20 milioni di specialisti ICT; ad oggi siamo ancora intorno ai 9,5 milioni. L’Italia contribuisce a questo totale con circa 1 milione di specialisti ICT, pari a poco più del 4% della forza lavoro nazionale.

Figura 8: il ruolo delle Piattaforme Social e E-commerce nella trasformazione digitale.

Il divario è ancor più evidente se si osservano i numeri della formazione. In Italia, su circa 500.000 laureati annui, meno del 2% proviene da percorsi ICT, pari a circa 7.000-10.000 nuovi laureati in discipline digitali ogni anno. A questi si aggiungono circa 6.000 diplomati annui negli ITS a indirizzo ICT e circa 22.000 diplomati provenienti dagli istituti tecnici con indirizzi informatici ed elettronici. In totale, dunque, il sistema formativo italiano produce ogni anno meno di 40.000 nuovi potenziali professionisti digitali, a fronte di un fabbisogno stimato di almeno 70.000-80.000 nuovi ingressi annui richiesti dal mercato del lavoro.

Questo divario strutturale rischia di trasformarsi in un serio ostacolo per la competitività del Paese e per la piena realizzazione della trasformazione digitale. Senza un forte investimento formativo, sia nei percorsi universitari e tecnici superiori sia nel reskilling e nell’upskilling dei lavoratori già occupati, l’Italia difficilmente riuscirà a colmare il gap che la separa dai principali competitor internazionali. Negli Stati Uniti, per fare un confronto, ogni anno vengono conferiti oltre 100.000 titoli di laurea triennale in informatica, 54.000 master e 2.500 dottorati nel solo settore ICT, numeri che permettono un ricambio molto più ampio e una maggiore disponibilità di capitale umano qualificato.

Le competenze digitali sono, e resteranno sempre di più, il vero motore della trasformazione digitale. Investire oggi in capitale umano significa assicurare domani sviluppo economico, innovazione e sovranità tecnologica.

I verticali: la trasformazione digitale delle piattaforme PA

Il percorso di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione italiana affonda le sue radici nei primi anni 2000, quando iniziarono a delinearsi le prime strategie di e-government. Già con il Piano di e-Government 2000-2005 si introdussero i primi servizi online e si pose l’attenzione sulla necessità di innovare i processi interni alla PA. Negli anni successivi seguirono ulteriori programmi nazionali, come il Piano e-Gov 2012 e l’Agenda Digitale Italiana, che ampliarono il perimetro degli interventi, includendo anche il tema dell’interoperabilità, dell’identità digitale e della sicurezza informatica. Un passaggio fondamentale fu l’introduzione del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), la cui prima versione risale al 2005, successivamente aggiornata in più occasioni. Il CAD ha fornito il quadro normativo di riferimento per l’obbligo di digitalizzazione dei procedimenti amministrativi, la gestione documentale digitale e l’erogazione telematica dei servizi ai cittadini e alle imprese, divenendo la base giuridica su cui sono state costruite molte delle piattaforme oggi operative.

Nel corso degli ultimi anni, la Pubblica Amministrazione italiana ha intrapreso un percorso strutturato di trasformazione digitale, fondato su un insieme di piattaforme abilitanti che hanno progressivamente modernizzato il rapporto tra cittadini, imprese e amministrazioni. Il processo non si è limitato all’adozione di singole tecnologie, ma ha comportato la realizzazione di un vero e proprio ecosistema digitale, caratterizzato da infrastrutture immateriali e fisiche, da modelli di interoperabilità e da un crescente patrimonio di dati condivisi.

Uno degli elementi più emblematici di questa trasformazione è rappresentato dal successo dello SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale, che oggi conta 39 milioni di identità digitali attive e registra circa 1,5 miliardi di accessi all’anno. SPID ha reso possibile un accesso semplice e sicuro ai servizi online della PA, diventando il principale strumento di autenticazione per cittadini e imprese. Parallelamente, la Carta d’Identità Elettronica (CIE) ha conosciuto un’elevata diffusione, con 30 milioni di carte rilasciate e oltre 5000 esercizi pubblici abilitati, contribuendo ad ampliare ulteriormente l’accessibilità ai servizi digitali.

La piattaforma IO, progettata come punto di accesso unico ai servizi della PA, ha raggiunto 11,5 milioni di utenti attivi. Tramite questa applicazione, i cittadini possono ricevere notifiche, gestire documenti e interagire con gli enti in modalità completamente digitale. Finora sono stati veicolati 5 milioni di documenti amministrativi e l’app ha gestito complessivamente circa 8,5 milioni di documenti digitali.

Un ulteriore pilastro dell’ecosistema digitale pubblico è rappresentato da PagoPA, il sistema nazionale di pagamento verso la PA e i soggetti aderenti. Nel 2024 ha gestito 147 milioni di transazioni per un controvalore di 34 miliardi di euro, standardizzando e semplificando i pagamenti per cittadini e imprese. Sul fronte anagrafico, l’ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente) ha permesso l’unificazione delle banche dati anagrafiche dei comuni italiani. Ad oggi ha registrato 8 milioni di utilizzi, 18 milioni di certificati emessi e oltre 36 milioni di accessi, coprendo l’intera popolazione residente pari a 59 milioni di persone.

Sul piano delle infrastrutture digitali, il cloud pubblico per la PA ha visto la migrazione di 498 amministrazioni sulla piattaforma PSN (Polo Strategico Nazionale), segnando un importante avanzamento verso l’adozione di infrastrutture sicure, affidabili e scalabili. Questo passaggio al cloud costituisce la base su cui costruire servizi innovativi, grazie anche ai modelli di interoperabilità, ai data space nazionali e ai big data framework in corso di implementazione.

La figura mostra anche l’evoluzione della spesa ICT della Pubblica Amministrazione, che riflette l’intensità degli investimenti effettuati a sostegno di questa trasformazione. Dal 2017 al 2024 la spesa ICT è cresciuta in modo continuo, passando da circa 5,6 miliardi di euro a 8,5 miliardi, con un incremento particolarmente marcato a partire dal 2020, in concomitanza con l’avvio delle iniziative del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e la spinta data dall’emergenza pandemica, che ha accelerato la digitalizzazione di molti servizi pubblici.

L’insieme di questi interventi ha progressivamente delineato un ecosistema digitale pubblico più moderno, integrato e orientato al cittadino, in cui la sicurezza, l’interoperabilità e l’efficienza dei servizi rappresentano gli assi portanti della nuova PA digitale italiana.

Figura 9: Piattaforme e KPI nella trasformazione digitale della PA.

Nell’ambito del percorso di trasformazione digitale dell’Italia, i grandi sistemi pubblici della sanità, della scuola, del fisco e della giustizia rappresentano, da sempre, il terreno più sfidante ma anche il più strategico. Sono i settori dove la digitalizzazione non solo consente un miglioramento dell’efficienza amministrativa, ma impatta direttamente sulla qualità della vita dei cittadini e sulla competitività complessiva del Paese. La loro evoluzione è stata negli anni discontinua, condizionata da fattori normativi, investimenti pubblici, capacità organizzativa e livelli di competenza digitale degli operatori. Tuttavia, negli ultimi anni – anche grazie all’impulso dei programmi europei e del PNRR – si osserva un’accelerazione significativa, pur con differenze marcate tra i vari ambiti.

Nel settore della sanità digitale, il Fascicolo Sanitario Elettronico rappresenta il fulcro della strategia di digitalizzazione. La sua diffusione ha raggiunto i 57 milioni di fascicoli attivati, pari alla quasi totalità della popolazione assistita, ma l’effettivo utilizzo resta ancora limitato al 18%. Questo dato evidenzia chiaramente come la sfida non sia più tanto infrastrutturale quanto culturale e organizzativa: la disponibilità del dato esiste, ma deve essere integrata pienamente nei processi clinici e resa realmente fruibile sia ai professionisti sanitari sia ai cittadini. Sul fronte delle prenotazioni digitali, tutte le regioni hanno attivato sistemi digitali, ma l’utilizzo medio si attesta ancora intorno al 53%, a dimostrazione di una persistente eterogeneità territoriale e di modelli organizzativi non ancora uniformi. In crescita è invece l’impiego della telemedicina, che ha conosciuto un’accelerazione durante la pandemia: oggi le televisite vengono effettuate da circa il 40% dei medici, ma il numero assoluto resta ancora contenuto con 0,2 milioni di visite gestite. Il sistema delle prescrizioni elettroniche è sicuramente uno dei casi di maggior successo, con 550 milioni di prescrizioni gestite digitalmente e un tasso di utilizzo che ha raggiunto il 96% del totale, rendendo ormai marginale il supporto cartaceo. Rimane infine un tema chiave quello delle competenze digitali dei medici, che si attestano attualmente intorno al 45%, a conferma del fatto che la trasformazione digitale in sanità deve continuare ad investire non solo su tecnologie ma anche e soprattutto su formazione continua e adeguamento dei modelli operativi.

Per quanto riguarda il sistema scolastico, il processo di digitalizzazione si è articolato lungo direttrici diverse, che spaziano dalla connettività all’adozione di piattaforme didattiche. Grazie agli interventi del PNRR e alle iniziative precedenti, il 95% delle scuole risulta ormai connesso, garantendo così una infrastruttura di base su cui sviluppare l’innovazione didattica. Tuttavia, la piena adozione degli strumenti digitali in aula resta ancora un percorso in via di consolidamento: ad esempio, le piattaforme digitali specifiche per la didattica, come bSmart e altre, vengono utilizzate mediamente dal 79% delle scuole, mentre l’adozione di contenuti didattici digitali, come ebook e materiali multimediali, nelle scuole secondarie di primo grado presenta una quota ancora mista, intorno al 33%. Molto più avanzato è invece il livello di digitalizzazione dei processi amministrativi scolastici, come dimostra il 98% di iscrizioni online e l’ampia diffusione dei servizi digitali tramite PagoPA e registro elettronico. Sul fronte delle competenze digitali del corpo docente, la situazione è a metà del guado: circa il 60% degli insegnanti ha acquisito un buon livello di competenze per integrare il digitale nei processi didattici, ma esiste ancora una quota rilevante di docenti che necessita di ulteriore supporto e formazione per sfruttare pienamente le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie.

Nel campo del fisco digitale, l’Italia rappresenta ormai un caso maturo e di riferimento internazionale. Le dichiarazioni precompilate coprono il 100% delle dichiarazioni fiscali, rendendo estremamente efficiente l’interazione fra cittadini e amministrazione finanziaria. L’utilizzo del cassetto fiscale da parte dei cittadini ha raggiunto l’86%, mentre la fatturazione elettronica, estesa a tutte le partite IVA, ha ormai un tasso di adozione dell’85%. Tutti i documenti digitali transitano attraverso il Sistema di Interscambio, che ha raggiunto la piena copertura del 100% delle fatture emesse. L’unico indicatore ancora relativamente più basso riguarda i pagamenti elettronici, che si attestano al 38% delle transazioni complessive, pur mostrando una costante crescita anche per effetto delle politiche di incentivo alla moneta elettronica e della lotta all’evasione.

Infine, il settore della giustizia digitale rappresenta forse il terreno più complesso e delicato, ma anch’esso ha conosciuto avanzamenti rilevanti. Il Processo Civile Telematico ha raggiunto una penetrazione dell’82%, consentendo la completa dematerializzazione dei fascicoli e degli atti giudiziari in larga parte dei procedimenti. Il Processo Penale Telematico, invece, è ancora in fase di sviluppo più graduale e presenta un livello di digitalizzazione intorno al 40%, per la maggiore complessità delle materie trattate e per le diverse implicazioni normative e di sicurezza. Importante anche il processo di digitalizzazione degli archivi giudiziari, che ha già consentito la gestione digitale di 7,75 milioni di fascicoli, con un livello complessivo di digitalizzazione che si attesta al 58%. I registri del Casellario Giudiziale Digitale e i sistemi di intercettazione (telefoniche, dati e ambientali) sono invece ormai integralmente digitalizzati, con copertura totale al 100%.

Nel complesso, il percorso di digitalizzazione dei grandi sistemi pubblici italiani presenta dunque una fotografia di luci e ombre: alcuni settori – come il fisco – hanno raggiunto livelli di maturità molto alti; altri – come la sanità e la giustizia – mostrano importanti progressi ma necessitano ancora di investimenti organizzativi e culturali per realizzare appieno il salto digitale. La scuola si colloca in una posizione intermedia, con infrastrutture ormai diffuse e un crescente utilizzo degli strumenti didattici digitali, ma con ancora margini di miglioramento nella formazione continua del personale docente. In tutti i settori, il tema delle competenze digitali degli operatori e la capacità di integrare pienamente le tecnologie nei processi decisionali, amministrativi e operativi rappresenta la vera sfida per il prossimo ciclo di innovazione.

Figura 10: I principali KPI nella trasformazione digitale di Sanità, Scuola, Fisco e Giustizia nella PA italiana.

I verticali: la trasformazione digitale delle banche

Negli ultimi dieci anni il settore bancario italiano ha attraversato una trasformazione profonda e sistemica, guidata da un progressivo ridisegno dei modelli di business, dei canali distributivi e delle logiche di servizio, grazie all’adozione massiccia di tecnologie digitali. La trasformazione non è stata solamente tecnologica, ma ha avuto effetti visibili e misurabili su costi, ricavi, redditività, soddisfazione dei clienti e assetto complessivo delle reti fisiche e operative.

Al centro della digitalizzazione bancaria troviamo l’evoluzione delle aree applicative specifiche. I servizi di internet banking e mobile banking sono ormai il canale prevalente di interazione per la maggior parte della clientela, con il 65% dei correntisti che utilizza attivamente questi strumenti. A questi si sono aggiunti moduli sempre più sofisticati di analytics, intelligenza artificiale, chatbot e assistenza virtuale, in grado di automatizzare numerose funzioni di relazione e consulenza al cliente, riducendo il carico operativo sul personale e migliorando la tempestività delle risposte. Parallelamente si sono diffusi servizi di personal finance management, che assistono i clienti nella pianificazione finanziaria, e soluzioni di gestione digitale del credito e dei rischi.

La digitalizzazione ha avuto un impatto diretto anche sulle attività di cybersecurity e compliance, oggi particolarmente influenzate dalle nuove normative europee come il regolamento DORA e la direttiva NIS2, che richiedono investimenti significativi nelle infrastrutture IT per garantire la resilienza operativa e la sicurezza dei dati bancari. Un altro asse fondamentale di sviluppo è rappresentato dai sistemi di pagamento digitali, il cui peso è aumentato in modo consistente negli ultimi anni, come mostra anche il focus sui pagamenti digitali illustrato nella figura allegata.

I numeri raccontano con chiarezza il cambio di paradigma. Oggi in Italia si effettuano circa 13 miliardi di transazioni elettroniche l’anno, per un controvalore che supera i 11.700 miliardi di euro. Le carte di pagamento e i wallet digitali hanno progressivamente guadagnato terreno, con un’incidenza che, nel 2024, ha raggiunto il 49% del totale, riducendo parallelamente l’utilizzo del contante, sceso al 41%. Anche i bonifici elettronici rappresentano ormai una quota rilevante delle transazioni complessive. Questa dinamica conferma che i clienti italiani, pur inizialmente più conservatori rispetto ad altri mercati europei, stanno adottando sempre più strumenti digitali come modalità ordinaria di relazione bancaria.

Dal punto di vista economico-finanziario, la digitalizzazione ha prodotto un doppio effetto: da un lato la razionalizzazione dei costi, dall’altro la creazione di nuove fonti di ricavo. I costi operativi delle banche sono stati ridotti in misura significativa. Il numero di sportelli fisici si è ridotto del 20% negli ultimi 5 anni, consolidando un trend ormai decennale di chiusura progressiva delle filiali fisiche. Il rapporto costi/ricavi, ossia il cost income ratio, che nel 2010 era attestato intorno al 65%, è progressivamente sceso fino al 55% nel 2023, segnalando un chiaro miglioramento dell’efficienza operativa del sistema bancario italiano.

Parallelamente sono cresciuti i ricavi legati ai servizi digitali, sia per l’aumento dei volumi transati su canali elettronici, sia per l’incremento della propensione all’acquisto di servizi accessori tramite canali online, come consulenze personalizzate, investimenti, prodotti assicurativi e creditizi. In questo contesto, l’investimento in ICT da parte delle banche italiane è cresciuto stabilmente, come documentato dalla serie storica riportata nella figura allegata, che mostra un passaggio da circa 7,2 miliardi di euro nel 2017 a oltre 10,4 miliardi nel 2024, secondo le stime di Anitec-Assinform.

Infine, un elemento chiave della trasformazione digitale è rappresentato dalla customer satisfaction. I clienti stanno premiando progressivamente i servizi digitali, con indicatori di soddisfazione che, però, mostrano ancora ampi margini di differenziazione fra operatori tradizionali e banche digitali. Secondo le rilevazioni di Bain & Company, il Net Promoter Score medio per le banche tradizionali italiane si attesta intorno a 15, mentre le banche digitali raggiungono un valore medio di 42, evidenziando il vantaggio competitivo in termini di esperienza utente, semplicità d’uso e velocità di servizio. Alcuni operatori, come Mediolanum e Intesa Sanpaolo, che hanno investito in modo massiccio nella digitalizzazione dei propri servizi, hanno raggiunto livelli NPS superiori alla media europea, con valori superiori a 60.

La digitalizzazione delle banche italiane rappresenta quindi un esempio concreto di trasformazione profonda e multidimensionale, che ha permesso al settore di rafforzare la propria redditività, razionalizzare la struttura fisica e incrementare la qualità del servizio offerto al cliente. Resta ora la sfida di consolidare questa traiettoria in un contesto competitivo in continua evoluzione, nel quale tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale generativa, la blockchain e il quantum computing potranno aprire nuovi scenari di innovazione per il banking del futuro.

Figura 11: Applicazioni e KPI nella trasformazione digitale delle Banche.

I verticali: la trasformazione digitale dell’industria

I risultati raggiunti dal tessuto industriale italiano testimoniano il percorso in atto verso una crescente maturità digitale. Circa il 50% delle imprese manifatturiere ha adottato sistemi MES per il governo avanzato della produzione, mentre circa il 90% dei macchinari risulta oggi interconnesso e integrato in processi digitali continui. Questo elevato livello di automazione e supervisione consente di conseguire significativi benefici in termini di efficienza operativa: l’indicatore OEE (Overall Equipment Effectiveness) si attesta mediamente sull’85%, mentre il tempo medio tra un guasto e l’altro (MTBF) ha raggiunto valori prossimi alle 175 ore, con tempi medi di riparazione (MTTR) inferiori alle 3 ore.

La digitalizzazione contribuisce anche a una rilevante riduzione dei costi operativi, stimata intorno al 25%, grazie all’adozione di sistemi predittivi per la manutenzione, alla diminuzione dei tempi di fermo impianto e all’incremento simultaneo della qualità e della produttività dei processi industriali.

Sul piano degli investimenti, l’industria italiana ha mantenuto negli ultimi anni un trend di crescita costante nella spesa ICT, passata da circa 7,5 miliardi di euro nel 2017 a oltre 9,9 miliardi previsti per il 2024. Tale incremento, pari a una crescita media annua superiore al 4%, evidenzia la crescente consapevolezza delle imprese riguardo al valore strategico della digitalizzazione per la competitività, la resilienza operativa e la capacità di affrontare le nuove sfide energetiche e ambientali, in linea con gli indirizzi dei programmi Transizione 4.0 e Industria 5.0.

Negli ultimi anni si è assistito a una forte accelerazione nell’adozione di nuove tecnologie digitali avanzate. L’utilizzo dei Digital Twin, ancora embrionale un decennio fa, sta oggi crescendo rapidamente, soprattutto nei settori della meccanica, dell’automotive, dell’aerospazio e dell’energia. Si stima che circa il 15-20% delle grandi imprese industriali italiane abbia già avviato progetti di Digital Twin su specifici processi o impianti produttivi, con risultati tangibili in termini di ottimizzazione dei flussi, simulazione predittiva dei guasti, riduzione dei tempi di sviluppo dei nuovi prodotti e miglioramento complessivo della qualità.

Anche l’intelligenza artificiale (AI) sta progressivamente trovando applicazione in ambito manifatturiero, soprattutto nei processi di controllo qualità, manutenzione predittiva, ottimizzazione dei parametri di produzione e supporto decisionale per la pianificazione della produzione. Oggi circa il 25-30% delle aziende industriali italiane di maggiori dimensioni utilizza soluzioni di AI, in particolare su moduli specifici legati all’analisi predittiva e all’elaborazione di dati di processo in tempo reale.

L’Industrial IoT rappresenta una delle dorsali principali di questa trasformazione. La progressiva sensoristica e interconnessione delle macchine consente di raccogliere grandi quantità di dati di produzione, energia, manutenzione e logistica, trasformabili in informazioni strategiche. Ad oggi, circa il 60% delle imprese manifatturiere italiane ha adottato soluzioni IIoT almeno su parte del proprio parco impianti, con punte più elevate nei settori ad alta automazione come il metalmeccanico, la chimica e l’automotive.

Un altro asse critico di trasformazione è quello della supply chain digitale. La gestione integrata e collaborativa dei flussi di approvvigionamento, produzione e distribuzione, attraverso piattaforme digitali condivise, ha consentito di aumentare la resilienza delle filiere, soprattutto durante le recenti crisi globali (pandemia, tensioni geopolitiche, carenza materie prime). Si stima che oggi circa il 40-50% delle imprese industriali italiane abbia avviato progetti strutturati di digitalizzazione della supply chain, integrando sistemi ERP avanzati con piattaforme SCM (Supply Chain Management), tracciabilità in tempo reale e capacità predittive di gestione della domanda.

Se si osserva l’evoluzione storica della digitalizzazione industriale negli ultimi 25 anni, si possono distinguere alcune fasi:

  • Fase 1 (fine anni ’90 – primi anni 2000): digitalizzazione amministrativa, diffusione degli ERP, primi sistemi CAD/CAM e PLM per la progettazione e la gestione documentale.
  • Fase 2 (2005-2015): avvio della digitalizzazione dei processi produttivi (MES), prime interconnessioni macchina-sistema e automazione spinta in alcune filiere avanzate.
  • Fase 3 (2016-2020): lancio di Industria 4.0, incentivi fiscali, diffusione dell’IIoT, prime sperimentazioni su AI, Big Data, Cyber Security industriale.
  • Fase 4 (dal 2021 in avanti): maturazione della smart factory integrata, adozione crescente di Digital Twin, estensione della sensoristica, centralità della sostenibilità, supply chain collaborativa, spinta all’Industria 5.0 con centralità dell’uomo, resilienza e transizione energetica.

In sintesi, la digitalizzazione dell’industria non rappresenta più una semplice opzione tecnologica, ma costituisce oggi una leva strategica fondamentale per la competitività del sistema manifatturiero italiano, la resilienza delle filiere e la sostenibilità dei processi produttivi, ponendo le basi per affrontare le sfide tecnologiche, ambientali e di mercato dei prossimi anni.

Figura 12: Applicazioni e KPI nella trasformazione digitale dell’Industria.

I verticali: la trasformazione digitale energy & utility

Il percorso di digitalizzazione del settore Energy & Utility ha radici che risalgono agli anni ’90, con l’introduzione dei primi sistemi SCADA digitali per il controllo remoto delle reti elettriche e di trasporto gas. Negli anni 2000, con la liberalizzazione dei mercati energetici e la crescente attenzione alla qualità del servizio, si sono diffusi i sistemi automatici di misura e le prime applicazioni di smart metering, che in Italia hanno trovato un’applicazione pionieristica già a partire dal 2001 con i programmi di ENEL Distribuzione. A partire dal 2010, l’accelerazione delle fonti rinnovabili e l’avvio della transizione energetica hanno spinto ulteriormente l’integrazione di tecnologie digitali, portando alla nascita delle prime smart grid e alla crescente adozione di piattaforme di asset management e gestione predittiva della rete. Negli ultimi anni, con l’evoluzione dell’Industrial IoT, dell’intelligenza artificiale e della gestione dei big data, la digitalizzazione sta entrando in una nuova fase caratterizzata da reti sempre più intelligenti, sistemi di demand response avanzati e progressiva integrazione con i sistemi di mobilità elettrica, secondo logiche di ecosistema energetico integrato.

La digitalizzazione del settore Energy & Utility rappresenta uno dei principali fattori abilitanti per la transizione energetica, l’integrazione delle fonti rinnovabili e il miglioramento dell’efficienza dei sistemi di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia. Le principali applicazioni digitali che oggi stanno trasformando il comparto riguardano l’evoluzione delle reti intelligenti e l’automazione spinta delle infrastrutture fisiche. I sistemi SCADA e gli Intelligent Electronic Devices (IED) consentono il monitoraggio continuo e la gestione in tempo reale delle reti, mentre le piattaforme di gestione della domanda (Demand Response) rendono possibile il bilanciamento dinamico tra produzione e consumo energetico, sfruttando la flessibilità diffusa di utenti industriali e residenziali. Gli Energy Management Systems, sempre più diffusi presso i grandi utilizzatori e presso le comunità energetiche emergenti, permettono di ottimizzare consumi e autoconsumi, con importanti benefici in termini di sostenibilità ambientale e risparmio economico. La digitalizzazione degli asset aziendali, supportata da soluzioni di Asset Management integrate con i sistemi GIS, consente di gestire in modo preciso ed efficiente il ciclo di vita delle reti e degli impianti, anche grazie all’applicazione di modelli predittivi basati su dati di campo. L’interconnessione fra reti elettriche, veicoli elettrici e sistemi Vehicle To Grid apre infine prospettive innovative per la stabilizzazione della rete e la gestione intelligente dei flussi energetici.

L’impatto di queste trasformazioni è ben rappresentato da alcuni indicatori chiave. In Italia il 100% delle reti elettriche di bassa tensione ha ormai adottato sistemi di smart metering, mentre la diffusione degli smart meter nelle reti di distribuzione gas ha raggiunto il 73% e si attesta al 17% per quanto riguarda le reti idriche. La digitalizzazione delle cabine secondarie di trasformazione, elemento chiave per la completa evoluzione verso le smart grid, è ancora in fase iniziale con una penetrazione pari al 5%, ma con piani di sviluppo in corso soprattutto da parte dei principali DSO. Dal punto di vista della qualità del servizio, il System Average Interruption Frequency (SAIFI) si attesta a 5,34 interruzioni annue per utente, mentre il System Average Interruption Duration (SAIDI) misura una durata media complessiva delle interruzioni pari a 44 minuti, valori che testimoniano il buon livello di continuità del servizio in un sistema energetico sempre più complesso.

Anche nel settore Energy & Utility, la spesa ICT sta crescendo in modo costante, trainata dagli investimenti nelle reti intelligenti, nella gestione dei dati e nella protezione dei sistemi OT. Dal 2017 al 2024 il mercato italiano del digitale per il comparto ha visto un aumento dagli 1,69 miliardi di euro ai 2,37 miliardi di euro, con un tasso medio annuo superiore al 5%, come riportato dalle analisi di Anitec-Assinform. Questo trend conferma come la digitalizzazione stia diventando un asse portante non solo per l’efficienza gestionale delle imprese di pubblica utilità, ma anche per la realizzazione degli obiettivi nazionali ed europei di transizione ecologica, decarbonizzazione e sicurezza energetica.

In sintesi, la digitalizzazione delle reti e dei servizi Energy & Utility costituisce oggi il presupposto indispensabile per governare le trasformazioni in atto, abilitando modelli di gestione più flessibili, resilienti e sostenibili, capaci di integrare in modo efficiente la crescita delle energie rinnovabili, l’elettrificazione dei consumi e l’evoluzione delle abitudini di consumo degli utenti finali.

Figura 13: Applicazioni e KPI nella trasformazione digitale nel settore Energy & Utility.

I verticali: la trasformazione digitale telco & media

Negli ultimi due decenni il settore delle telecomunicazioni e dei media ha attraversato una delle trasformazioni digitali più radicali tra tutti i comparti industriali. L’arrivo di nuove tecnologie abilitanti, la convergenza tra reti e contenuti e l’esplosione della domanda di servizi digitali hanno completamente ridisegnato sia le infrastrutture sia i modelli di business.

Nelle telecomunicazioni, il processo di digitalizzazione si è concretizzato innanzitutto nella modernizzazione delle reti fisse e mobili. In Italia, la penetrazione dell’ultra broadband ha raggiunto l’86% delle linee fisse, su un totale di circa 20 milioni di linee. Parallelamente, le reti mobili hanno visto un’evoluzione ancora più rapida: oggi il 95% circa dei terminali mobili attivi in Italia sono smartphone, in grado di utilizzare appieno le reti 4G e 5G, mentre le SIM esclusivamente 2G o i featurephone rappresentano ormai una quota marginale e residuale del mercato. L’arrivo del 5G, che già copre la quasi totalità della popolazione (oltre il 99% secondo i dati di alcuni operatori), sta ulteriormente ampliando le capacità della rete sia in termini di velocità che di latenza, aprendo la strada a nuove applicazioni avanzate come l’IoT massivo, i veicoli connessi e le reti private per industria e sanità.

La conseguenza naturale di questa evoluzione è stata una crescita continua e sostenuta dei volumi di traffico. Ogni anno, sia il traffico dati su rete fissa che quello su rete mobile registrano incrementi a doppia cifra, spinti da un utilizzo sempre più intenso dei servizi video, dello streaming ad alta definizione, dei servizi cloud e delle comunicazioni digitali. Questo fenomeno è alimentato non solo dall’aumento della penetrazione dei dispositivi, ma anche dal fatto che il 64% dei televisori in Italia è ormai costituito da Smart TV, che accedono in maniera diretta ai servizi di streaming, riducendo ulteriormente la centralità dei canali broadcast tradizionali.

Nel comparto media, la trasformazione digitale ha avuto effetti dirompenti. Da un lato, ha favorito lo sviluppo di nuove forme di consumo dei contenuti grazie alle piattaforme OTT, ai servizi on demand, ai podcast e ai social media. Dall’altro, ha eroso progressivamente il ruolo tradizionale degli editori e dei broadcaster. La raccolta pubblicitaria, un tempo dominata dalla stampa e dalla televisione generalista, si è progressivamente spostata verso il digitale, dove le grandi piattaforme globali controllano ormai la stragrande maggioranza dei ricavi pubblicitari, lasciando agli editori tradizionali quote sempre più esigue. Questo fenomeno di disintermediazione ha avuto come effetto una drastica riduzione delle copie vendute dei quotidiani cartacei e un ridimensionamento strutturale del settore editoriale, con impatti occupazionali significativi.

Nonostante le tensioni industriali e competitive, il processo di digitalizzazione ha comportato anche benefici concreti sul piano dell’efficienza operativa. Le Telco hanno adottato in misura crescente l’automazione della gestione di rete, il ricorso all’intelligenza artificiale per l’ottimizzazione del servizio clienti, la virtualizzazione delle reti (SDN e NFV), e l’adozione di infrastrutture cloud-native per il provisioning dei servizi. Nel settore media, l’intera filiera produttiva — dalla ripresa al montaggio, fino alla distribuzione — si è fortemente digitalizzata, riducendo tempi e costi e permettendo anche la diffusione di modalità di produzione da remoto.

Tutto questo ha richiesto, naturalmente, investimenti significativi in innovazione tecnologica. Nel 2024, la spesa ICT complessiva del settore Telco e Media in Italia ha raggiunto i 9,1 miliardi di euro, a conferma del peso strategico che la trasformazione digitale riveste per questi comparti. Questa spesa ha riguardato principalmente lo sviluppo delle reti di nuova generazione, l’infrastruttura cloud e data center, le piattaforme di gestione e orchestrazione dei servizi, le soluzioni di sicurezza, oltre all’adozione di nuove piattaforme di customer experience digitale.

Il percorso di digitalizzazione delle telecomunicazioni e dei media italiani non è ancora concluso. Anzi, si sta ora aprendo una nuova fase di trasformazione guidata da ulteriori innovazioni: l’intelligenza artificiale generativa per la produzione e personalizzazione dei contenuti, le reti 5G standalone per le applicazioni industriali e mission critical, il metaverso e l’immersive media per nuove forme di intrattenimento, e una progressiva integrazione tra piattaforme di telecomunicazione, contenuti e servizi cloud su scala globale.

Figura 14: Applicazioni e KPI nella trasformazione digitale del settore Telco e Media

Il posizionamento dell’Italia in Europa e nel mondo nella digitalizzazione

Dal 2015 al 2020, l’Italia ha mantenuto una posizione bassa nella classifica DESI, oscillando tra il 24º e il 25º posto su 28 paesi membri. Tuttavia, a partire dal 2021, si osserva un miglioramento significativo, con l’Italia che sale al 20º posto e successivamente al 18º nel 2022. Questo progresso è attribuibile a vari fattori, tra cui: Incremento della copertura della banda larga e delle reti mobili avanzate, implementazione di strategie nazionali per la digitalizzazione, come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), maggiore utilizzo di tecnologie digitali da parte delle imprese e della pubblica amministrazione.

Sebbene l’Italia abbia mostrato progressi notevoli negli ultimi anni, persistono sfide significative, in particolare nelle competenze digitali della popolazione e nell’adozione di tecnologie avanzate da parte delle imprese. In particolare, l’Italia si è classificata al 18º posto su 27 paesi dell’Unione Europea nell’ultima edizione disponibile del Digital Economy and Society Index (DESI), pubblicata nel 2022.

Tra i punti sicuramente da migliorare vi sono: un livello insufficiente di competenze digitali nella popolazione. Solo il 45,8% delle persone tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base, rispetto a una media UE del 55,5%, nonostante i progressi nella diffusione della banda ultra larga, la copertura delle reti a capacità molto elevata (VHCN) rimane limitata, con il 60% delle famiglie italiane raggiunte, rispetto a una media UE superiore all’80%, L’adozione di tecnologie avanzate da parte delle imprese italiane è ancora bassa. Ad esempio, solo l’8% delle imprese utilizza l’intelligenza artificiale, contro il 20% in Germania, L’Italia ha compiuto progressi nell’offerta di servizi pubblici digitali, avvicinandosi alla media europea. Tuttavia, persistono sfide nell’adozione e nell’efficienza di tali servizi.

Il Digital Decade Country Report 2024 della Commissione Europea fornisce un’analisi dettagliata dei progressi dell’Italia rispetto agli obiettivi del programma “Digital Decade 2030”. Ecco una sintesi dei principali risultati e delle raccomandazioni specifiche per il nostro paese.

Solo il 45,8% della popolazione italiana possiede competenze digitali di base, al di sotto della media UE del 55,6%. L’Obiettivo UE al 2030: 80% della popolazione con competenze digitali di base. Anche se tale obiettivo in 5 anni appare irraggiungibile è importante intensificare gli sforzi per migliorare le competenze digitali in tutti i gruppi target, con particolare attenzione all’inclusione delle donne nel settore ICT.

Solo il 5% delle imprese italiane utilizza soluzioni di AI, rispetto all’8% della media UE. Il 55,1% delle imprese italiane adotta soluzioni cloud, superando la media UE del 38,9%. Promuovere l’adozione di tecnologie avanzate, in particolare l’AI, e sostenere l’ecosistema delle start-up e delle imprese innovative attraverso strumenti finanziari efficaci e sinergie tra ricerca e industria.

Copertura VHCN (Very High Capacity Networks): Nel 2023, la copertura VHCN in Italia era del 59,6%, inferiore alla media UE del 78,8%. La copertura 5G in Italia ha raggiunto il 99,5%, superando la media UE dell’89,3%. Accelerare la diffusione delle reti VHCN e garantire un accesso sufficiente allo spettro per nuove applicazioni B2B e B2C.

Il livello di digitalizzazione dei servizi pubblici per i cittadini è del 68,3%, rispetto al 79,4% della media UE. Il livello di digitalizzazione dei servizi pubblici per le imprese è del 76,3%, rispetto all’85,4% della media UE. L’accesso alle cartelle cliniche elettroniche è disponibile per l’82,7% della popolazione, superando la media UE del 79,1%. Migliorare l’efficienza e l’interoperabilità dei servizi pubblici digitali, promuovendo l’adozione dell’identità digitale e completando il sistema di cartelle cliniche elettroniche.

L’Italia ha compiuto progressi significativi in alcune aree della digitalizzazione, come la copertura 5G e l’accesso alle cartelle cliniche elettroniche. Tuttavia, permangono sfide importanti, in particolare nel potenziamento delle competenze digitali della popolazione e nell’adozione di tecnologie avanzate da parte delle imprese. L’Italia ha destinato il 25,6% del PNRR alla trasformazione digitale, pari a circa 47 miliardi di euro e ha presentato una roadmap strategica con obiettivi ambiziosi allineati a quelli dell’UE per il 2030, ma la sua adozione formale a livello nazionale è ancora in sospeso.

Conclusioni

In questo lungo articolo abbiamo preso in considerazione molte angolature e punti di osservazione sul percorso di digitalizzazione.

Il percorso di analisi svolto sulla digitalizzazione ha consentito di mettere in evidenza, con uno sguardo ampio e sistemico, l’impatto profondo e trasversale che le tecnologie digitali stanno avendo sulla società, sull’economia e sulle istituzioni. La SWOT analysis che abbiamo elaborato sintetizza efficacemente i principali punti di forza, le debolezze strutturali, le opportunità emergenti e le minacce che accompagnano questa trasformazione in atto.

Tra i punti di forza si conferma il ruolo chiave della digitalizzazione nel migliorare la produttività e l’automazione dei processi, consentendo un accesso diffuso e immediato a patrimoni informativi, conoscenza e formazione. I servizi pubblici, come sanità, scuola, economia e giustizia, possono beneficiare di una qualità e tempestività significativamente superiori, mentre nuovi modelli di business continuano a emergere in settori come l’e-commerce, il fintech, i motori di ricerca e i social media. Anche la collaborazione a distanza e l’innovazione scientifica e tecnologica ricevono un impulso costante grazie a queste tecnologie.

Accanto a questi progressi, tuttavia, permangono alcune debolezze strutturali che vanno affrontate con consapevolezza. I divari digitali, sia generazionali che territoriali e socio-economici, rischiano di ampliare le disuguaglianze preesistenti. La forte dipendenza da grandi player tecnologici globali crea situazioni di lock-in difficili da gestire, mentre la crescente complessità nella gestione e protezione dei dati introduce problematiche nuove legate alla sicurezza informatica, alla privacy e alla compliance normativa. Inoltre, l’enorme quantità di informazioni disponibili alimenta fenomeni di difficoltà di discernimento e di disinformazione, e la transizione tecnologica può creare tensioni nel mercato del lavoro con fenomeni di disoccupazione tecnologica e polarizzazione delle competenze.

Sul versante delle opportunità, la digitalizzazione si presenta come uno straordinario alleato per la transizione green e la sostenibilità ambientale, grazie ai sistemi di monitoraggio e gestione intelligente delle risorse. Vi è una chiara priorità nello sviluppo delle infrastrutture digitali critiche nazionali, come reti in fibra, 5G, cloud sovrano, AI edge computing e soluzioni open source, che possono garantire una maggiore autonomia tecnologica. I servizi sanitari, educativi e sociali possono evolversi profondamente grazie all’intelligenza artificiale e alla capacità di analisi dei big data, soprattutto se sviluppati con una forte componente europea. Emergono nuovi ecosistemi economici nazionali ed europei, come quelli promossi da GAIA-X e dall’Industria 5.0, e cresce la possibilità di rafforzare la sicurezza pubblica attraverso sistemi predittivi e di allerta precoce. Fondamentale sarà accompagnare tutto questo con politiche efficaci di formazione continua e reskilling digitale della popolazione.

Infine, le minacce associate alla digitalizzazione richiedono una vigilanza costante. L’incremento esponenziale dei cyberattacchi rappresenta un rischio globale crescente, così come la progressiva erosione della privacy e l’eventualità di un controllo sociale non regolato. La disinformazione e la manipolazione dell’opinione pubblica tramite le piattaforme digitali alimentano derive divisive e polarizzanti. Il rischio di una concentrazione del potere economico e tecnologico in poche grandi imprese globali si accompagna a forti tensioni geopolitiche legate al controllo di tecnologie strategiche come l’intelligenza artificiale, i chip e le infrastrutture cloud.

Nel complesso, la digitalizzazione rappresenta un fenomeno ineluttabile e sistemico, che offre grandi opportunità di progresso, ma che impone anche un forte senso di responsabilità, visione strategica e capacità di governance per evitare che i rischi possano prevalere sui benefici. La sfida per il futuro sarà quella di saper governare questa trasformazione con politiche inclusive, investimenti mirati e un forte presidio etico, tecnologico e normativo.



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