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Bioeconomia, l’Europa ha bisogno di un salto di scala


Italia in prima fila per investimenti, filiere resilienti e raccolta differenziata. Ma la sfida ora è tutta politica

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La bioeconomia, ovvero l’insieme delle attività che utilizzano risorse biologiche rinnovabili – dalla filiera agroalimentare ai bioprodotti, dai materiali sostenibili ai rifiuti organici – è sempre più un asset strategico per affrontare contemporaneamente crisi ambientali, squilibri geopolitici e stagnazione industriale. E l’Italia, con i suoi 426,8 miliardi di euro di valore generato nel 2024 e oltre due milioni di occupati, gioca un ruolo di primo piano nel contesto europeo.

Un valore di 3.000 miliardi

Secondo l’undicesimo rapporto di Intesa Sanpaolo sulla bioeconomia in Europa, questo meta-settore rappresenta oggi l’8,7% dell’output dell’intera UE27, con un valore stimato in oltre 3.000 miliardi di euro. L’Italia pesa per il 14% sull’intera bioeconomia europea, un dato superiore alla sua media economica generale (12,4%), segno di una specializzazione consolidata e competitiva.

Nel nostro Paese si contano bioraffinerie di scala industriale – frutto di oltre un miliardo di euro di investimenti – realizzate riconvertendo siti industriali dismessi. Producono bioplastiche, bioerbicidi, biocarburanti e altri prodotti green in grado di sostituire input fossili in vari settori, riducendo al contempo le emissioni e l’inquinamento del suolo e delle acque.

Ma il primato italiano si vede anche nella gestione dei rifiuti organici: il 72% del totale viene raccolto in modo differenziato, contro una media europea ferma al 26%. Questo risultato è il frutto di una piattaforma nazionale che coinvolge agricoltori, impianti di compostaggio, amministrazioni locali e imprese, dimostrando quanto sia cruciale l’integrazione territoriale per costruire economie circolari reali.

La bioecnomia fa bene ai territori marginali

Oltre alla parte industriale, la bioeconomia può rigenerare anche territori marginali, in particolare le Aree Interne del Mezzogiorno, spesso svantaggiate dal punto di vista infrastrutturale. Qui si concentra un capitale naturale prezioso: biodiversità, colture estensive, pratiche biologiche, sistemi agro-silvo-pastorali. Secondo il rapporto, valorizzare questi asset significa trasformare fragilità in forza, creando filiere corte, nuove imprese e coesione sociale.

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Nel settore degli imballaggi, un’indagine su 171 imprese italiane rivela che quasi la metà utilizza già input di origine biologica, e il 68% di quelle che ne fanno un uso marginale intende aumentarne la quota. I driver sono competitività, richiesta del mercato, innovazione. E in effetti oltre il 55% delle aziende bio-based fa attività di ricerca e sviluppo, contro il 24% delle imprese tradizionali.

L’Europa ha oggi un’opportunità e una responsabilità. La bioeconomia può rafforzare il peso industriale del continente, ma servono misure concrete: sottocodici per distinguere le bioraffinerie, obblighi minimi di contenuto bio-based, incentivi per la diffusione di materiali compostabili. Il rischio è che, senza un pieno riconoscimento normativo e politico, l’Europa perda terreno in un ambito in cui ha finora detenuto la leadership mondiale.

L’Alleanza dei cluster europei per la bioeconomia, che oggi riunisce 14 reti in 11 Paesi, chiede un salto di scala: la bioeconomia deve diventare una vera strategia industriale continentale, capace di coniugare decarbonizzazione, autonomia produttiva e sviluppo economico.



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