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Il debito pubblico italiano continua ad aumentare ed è sempre più in mano a fondi stranieri


Nonostante i propositi e gli annunci del governo Meloni circa la volontà di aumentare la quota del debito pubblico nelle mani degli investitori italiani, in particolare famiglie e imprese, dagli ultimi dati della Banca d’Italia emerge un quadro contrario alle aspettative e agli annunci fatti dall’esecutivo di centro-destra. Dall’ultimo rapporto di Palazzo Koch dal titolo “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, infatti, risulta che la percentuale di debito nelle mani dei fondi stranieri è salita a marzo dal 31,9 al 32,4% del totale, mentre quella detenuta dagli altri residenti (principalmente famiglie e imprese non finanziarie) è lievemente diminuita al 14,3 per cento (dal 14,4 per cento). Anche la quota di debito in mano alla stessa Banca d’Italia ha continuato a diminuire, scendendo ad aprile al 20,2%, dal 20,5% del mese precedente. I dati smentiscono la dichiarazione di Giorgia Meloni risalente al 28 aprile 2024, secondo cui «Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore». Allo stesso tempo si registra anche un aumento del debito delle pubbliche amministrazioni, in aumento di 30,1 miliardi rispetto al mese precedente, raggiungendo la cifra di 3.063,5 miliardi.

Tuttavia, al contrario di quanto propugnato a reti unificate dalla narrazione dominante neoliberista, il problema del debito non è un problema in termini assoluti, ma è da mettere in relazione a due elementi fondamentali: il suo valore in rapporto al PIL (prodotto interno lordo) e la composizione del debito per detentori. A questo si aggiunge un altro elemento importante che è la spesa per interessi che ogni anno una nazione paga sull’emissione dei titoli e che può incidere significativamente sul debito complessivo. La composizione del debito per detentori è un aspetto particolarmente rilevante, in quanto l’elevata percentuale di debito nelle mani del mercato e di fondi stranieri rende il debito vulnerabile: i titoli, infatti, possono essere repentinamente liquidati, creando forti pressioni ribassiste sui prezzi e innescando di conseguenza un rialzo dei rendimenti, per via della relazione inversa tra prezzi e rendimenti che caratterizza le obbligazioni. Ciò significa anche che chi detiene il debito pubblico di una nazione, in questo caso quello italiano, può arrivare piuttosto facilmente ad influenzare le scelte politiche utilizzando strumentalmente la leva del debito, minacciando ad esempio di vendere repentinamente i titoli di Stato. Ecco perché detenere internamente il debito è un’opzione più sicura e sovrana che non dipendere in tutto o in parte dai mercati e dagli investitori internazionali.

Secondo le ultime rilevazioni, la percentuale di debito detenuta dai non residenti, ossia singoli investitori e istituti finanziari che non hanno la residenza in Italia, a marzo era pari al 32,4% del totale ed è in aumento da marzo 2023, quando è stato toccato il valore minimo degli ultimi anni (26,1 per cento), ma resta ancora lontana dal picco registrato a ottobre 2009 (41,3 per cento). Se più del 32% del debito è nelle mani dei non residenti, sarebbe sbagliato pensare che il restante 70% sia nelle mani di famiglie e imprese italiane: secondo gli ultimi dati, infatti, 20,2% del debito è detenuto da Banca d’Italia, mentre il 20,4% da altre banche centrali o banche e il 12,4% da altre istituzioni finanziarie, come la Cassa depositi e prestiti. Solo il rimanente 14,4% è detenuto dagli “altri residenti”, una categoria dove rientrano principalmente le famiglie e i singoli investitori italiani.  Il Rapporto sul debito pubblico 2023 del Ministero di Economia e Finanza (MEF) analizza, inoltre, le principali tipologie di investitori relative ai BTP (Buoni del Tesoro Poliennali), titoli di debito a medio-lungo termine. In particolare, per quanto riguarda i BTP con scadenza ventennale, la quota sottoscritta dalle banche è stata la più rilevante (39%), seguita da quella dei fondi d’investimento (24,7%), risultata in diminuzione rispetto all’anno precedente. Banche centrali e istituzioni governative hanno, invece, contribuito all’acquisto dei titoli ventennali con una quota del 24,2%, seguite dai Fondi pensione e assicurazioni (6,3%) e dai fondi speculativi (5,8%).

La questione di chi possiede il debito pubblico influenza anche quella relativa agli interessi sul debito: la forte dipendenza dai fondi d’investimento e da banche estere, infatti, aumenta il rischio di rifinanziamento perché, senza un prestatore di ultima istanza, ossia una banca centrale che garantisce i titoli, gli investitori richiedono rendimenti più elevati per investire nel nostro debito sovrano, con conseguenze negative per i conti pubblici. Non a caso, la vera e propria esplosione del debito italiano si registra a partire dal 1981, in seguito al cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia deciso dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia: un evento che ha provocato l’impennata del debito poiché la banca centrale non garantiva più i titoli, determinando quindi un aumento dei tassi d’interesse. A partire da allora, l’aumento del debito è stato determinato proprio dall’interesse più alto preteso dagli investitori: si stima, infatti, che la spesa per interessi sia raddoppiata tra il 1981 e il 1984, passando dal 4% all’8% del PIL. Secondo Eurostat nel 2022, ultimo anno in cui sono disponibili i dati, l’Italia è stato il Paese che ha pagato più interessi sul proprio debito pubblico in percentuale del prodotto interno lordo all’interno dell’Unione europea: il 4,4 per cento, davanti a Ungheria (3 per cento), Grecia (2,7 per cento) e Spagna (2,4 per cento). La spesa media in interessi sul debito dei 27 Paesi Ue è invece molto più bassa, pari all’1,7 per cento.

Il dato sull’aumento degli investitori esteri nel debito pubblico italiano offre l’occasione per ricordare che l’attuale debito pubblico non è dovuto alla spesa eccessiva, secondo il mantra dominante per cui vivremmo “al di sopra delle nostre possibilità”, bensì all’enorme massa di interessi passivi pagati alle banche e agli investitori privati. A riprova di ciò vi è il fatto che il nostro Paese risulta tra i più virtuosi a livello europeo, e non solo, per quanto riguarda l’avanzo primario: negli ultimi 30 anni, infatti, ha sempre speso meno del totale delle entrate, al netto degli interessi sul debito. Si tratta di un dato confermato anche dall’FMI che ha una sezione dedicata agli avanzi primari registrati in rapporto al Pil per 115 Paesi del mondo dal 1990 a oggi: stilando una classifica, è emerso che l’Italia si posiziona all’undicesimo posto con un avanzo primario medio annuo dell’1,75% rispetto al PIL.

Quello del debito pubblico, dunque, è un tema che riguarda innanzitutto la sovranità economica e monetaria, senza la quale non è possibile avere alcuna sovranità nemmeno in ambito geopolitico, energetico e nelle relazioni internazionali. L’Italia, prima con il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, poi con l’ingresso nello SME e successivamente con l’adesione al sistema dell’euro ha rinunciato alla sua sovranità economico-monetaria, diventando dipendente dai mercati finanziari. Il che ha accresciuto ulteriormente il potere dei fondi speculativi e d’investimento come Blackrock, Vanguard e State Street che muovono cifre pari o superiori a quelli del PIL di intere nazioni europee. Un risultato ottenuto proprio grazie alla sottomissione dello Stato alle forze economico-finanziarie. Nel settembre 2024, l’amministratore delegato di Blackrock, Larry Fink, è stato accolto a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni per scambiare «un approfondito scambio di vedute su possibili investimenti del fondo USA in Italia». Secondo lo storico Alessandro Volpi, la Meloni potrebbe aver chiesto a Fink «di comprare una parte del debito italiano magari avendo una corsia privilegiata per ulteriori future privatizzazioni». Dunque, non solo il debito pubblico in mani italiane non è aumentato, ma la Penisola risulta sempre più nell’orbita dei mercati finanziari e dei grandi fondi internazionali – soprattutto statunitensi – da molti definiti i veri «padroni del mondo».

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Giorgia Audiello

Laureata in Economia e gestione dei beni culturali presso l’Università Cattolica di Milano. Si occupa principalmente di geopolitica ed economia con particolare attenzione alle dinamiche internazionali e alle relazioni di potere globali.





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