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L’Europa e il reporting di sostenibilità: “Rischio che si trasformi in atto burocratico”


“Quando la Corporate Sustainability Reporting Directive, (ndr. la norma dell’Unione Europea sulla rendicontazione di sostenibilità ) , ha iniziato a incombere, ho notato un feroce acquisto di forza lavoro femminile da parte delle grandi aziende, che è una cosa più che positiva, ma, allo stesso tempo, quasi nessuno ha pensato di mettere in piedi programmi di welfare per permettere loro di conciliare vita privata e carriera”. Gianluca Manca, professore di finanza sostenibile all’Università Bocconi, ha partecipato attivamente all’evoluzione delle normative di reporting dell’Europa, e non nasconde di essere incappato in qualche paradosso. Come è noto, il Green Deal europeo (2019) ha fissato l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, avviando una strategia di finanza sostenibile volta a reindirizzare i flussi di capitale. Tra gli strumenti legislativi per raggiungere questo obiettivo c’è la Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd), con la quale le aziende sono chiamate a rendicontare le loro performance ambientali, sociali e di governance.

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Ma come si arriva a questa norma?

“Tutto è iniziato nel 2014, quando l’Europa ha deciso di regolamentare la comunicazione della sostenibilità aziendale con la direttiva “Non Financial”. Già il nome, “non finanziario”, indicava una minore importanza, un concetto che personalmente non ho mai condiviso. All’epoca, coinvolgeva circa 10-11 mila aziende (principalmente nazionali e quotate in borsa). Successivamente, l’Europa ha corretto il tiro ed è nata nel 2023, appunto, la Csrd, che rafforza e amplia la direttiva precedente. Questa prevede di intercettare quasi 50-57 mila società. Nonostante l’ampliamento però, la direttiva esclude ancora le piccole e medie imprese, e qui, per me, iniziano i problemi”.

Di quante imprese stiamo parlando?

“Abbiamo condotto delle ricerche e scoperto che in Europa ci sono circa 22 milioni di aziende. Solo lo 0,2% (le grandi e quotate) sono intercettate dalla direttiva. Il restante 99,8% sono pmi, di cui il 94% microimprese. Questo “esercito” di imprenditori è cruciale: contribuiscono per metà al pil europeo e impiegano circa 100 milioni di persone (il 66% della forza lavoro europea)”.

Eppure, per le logiche di filiera, anche le piccole non saranno immuni.

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“Sì e il rischio è proprio l’effetto “trickle down”: se una grande impresa ha obblighi di rendicontazione, chiederà certificazioni e restrizioni ai suoi fornitori più piccoli. Questo è un duro colpo economico per le pmi, che spesso mancano della consapevolezza culturale e delle risorse finanziarie per far fronte a tali richieste”.

Lei ha lavorato all’interno dell’European Financial Reporting Advisory Group (Efrag), incaricato dalla Commissione per creare standard tecnici e guidare le imprese nella rendicontazione. Perché, secondo lei, non era possibile semplificare?

“La Commissione pensava a una versione semplificata di standard già incomprensibili per i grandi, mentre noi insistevamo per un linguaggio semplice e comprensibile, come un foglio Excel o Word con domande chiare, nella lingua del Paese. Non si può chiedere a un microimprenditore con due paninoteche di interpretare domande sulla quantità di gas serra o sulla biodiversità”.

Scopo di “Omnibus”, il pacchetto legislativo presentato nel 2024, è proprio quello di semplificare e ridurre gli oneri di rendicontazione. Ma quali sono le misure principali?

“Il Parlamento e il Consiglio dell’Ue non hanno ancora concluso l’iter su tutti gli elementi della proposta e persistono divergenze tra esigenze di semplificazione e integrità del sistema, Intanto, è previsto il rinvio degli standard settoriali di cui sopra al 2026. Poi, l’esenzioni per le pmi non quotate dagli obblighi di rendicontazione, in linea con la Csrd. Infine la sospensione temporanea degli obblighi per imprese extra-UE operanti nel mercato europeo oltre determinate soglie. Le motivazioni della Commissione sono state proprio la proporzionalità, la riduzione dei costi per le imprese minori e la necessità di tempi tecnici per l’attuazione”.

Crede quindi che sia un passo avanti?

“Omnibus è una sorta di revisione politica. Io non vorrei che diventasse un mero esercizio di conformità normativa, perché solo chi ha risorse e uffici legali potrà gestirla, mentre le piccole imprese dovranno spendere ancora soldi per qualcosa che non comprendono. Il problema è che questa svolta politica, ha sfalciato di due terzi il lavoro tecnico di anni, e nessuno si è preso la responsabilità di questo fallimento”.

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