Settantatré palestinesi uccisi dall’alba al tramonto di ieri, centodiciotto mercoledì, centoquarantadue martedì. Oltre 330 ammazzati in poco più di due giorni, in 26 diversi massacri: raid contro tende, piccoli mercati, ospedali e centri di distribuzione del cibo. «La maggioranza sono donne e bambini, civili disarmati – scrive nel suo comunicato la Protezione civile palestinese – Numeri che riflettono la deliberata scelta dell’occupazione di prendere di mira i più vulnerabili».
LA FEROCIA dell’offensiva israeliana su Gaza è un crescendo. Le ultime settimane sono state durissime, nonostante siano trascorsi 21 mesi dal 7 ottobre 2023 e la Striscia sia ridotta a un intreccio indistricabile di macerie e corpi. Tanti sono i massacri che ieri il ministero degli affari religiosi avvertiva della mancanza di luoghi dove seppellire con dignità i cadaveri.
I cimiteri sono pieni, una quarantina non esistono nemmeno più: sono stati spianati dai carri armati e i bulldozer israeliani. E le tendopoli improvvisate tra le rovine riducono lo spazio a disposizione, visto che quasi l’80% di Gaza è sotto ordine israeliano di evacuazione forzata. Questa è Gaza, ed è un orrore condiviso.
Pesa quanto i corpi dei morti e quelli ridotti a pelle e ossa dei vivi. Pesa quanto una bomba MK-82: 500 libbre, 230 chili. La produce la statunitense General Dynamics. L’ultima è stata sganciata sopra Gaza City lunedì da un caccia israeliano: ha centrato la caffetteria Al-Baqa, lungo il mare, il ritrovo di giornalisti, artisti, attivisti, famiglie in cerca di ristoro.
Il cratere ha inghiottito almeno 33 persone. I soccorritori hanno trovato i frammenti della bomba, i giornalisti del Guardian li hanno fotografati e gli esperti balistici (tra loro Trevor Ball, ex funzionario dell’esercito Usa) gli hanno dato un nome. «Se usi munizioni pesanti di questo tipo, in un’area affollata – ha commentato al quotidiano britannico il giurista Andrew Forde – anche con la miglior mira del mondo provocherai necessariamente un risultato indiscriminato».
NON È LA PRIMA VOLTA che le «super bombe» Usa vengono sganciate su Gaza, Washington lo sa. Eppure lunedì, mentre l’internet café di al-Baqa veniva colpito, il Dipartimento di Stato approvava la vendita di ordigni di questo tipo all’esercito israeliano perché l’arsenale si è svuotato dopo i bombardamenti sull’Iran: circa 7mila tra Blu-109 (900 chili) e Mk-82 (230), per un costo totale di 510 milioni di dollari. Si attente il via libera del Congresso, non si temono sorprese.
Ieri le complicità dell’alleato sono emerse anche altrove. Secondo un’inchiesta dell’Associated Press, basata su video girati sul campo, immagini satellitari e testimonianze di due contractor privati, le guardie statunitensi assunte dalla Gaza Humanitaria Foundation hanno sparato proiettili e granate contro i palestinesi in attesa dei pacchi alimentari. Sono circa 600 le persone uccise nei pressi dei centri della Ghf dal 27 maggio scorso, quando Israele – dopo tre mesi di blocco totale dell’assistenza umanitaria – ha appaltato alla fondazione la distribuzione di cibo ai palestinesi (attraverso solo quattro siti e con modalità che violano gli standard internazionali).
Le due fonti hanno fornito video dove si vedono i contractor sparare da tutte le direzioni, in aria, per terra, sui palestinesi; usare spray al peperoncino e granate stordenti sulla folla ammassata nelle gabbie di metallo; festeggiare quando qualcuno viene colpito; e suggerirsi metodi di «dispersione» della folla. Hanno raccontato di spari dalle torrette sopra chi raccoglieva pacchi alimentari e del lavoro di monitoraggio dei video attraverso strumenti per il riconoscimento facciale. Le testimonianze si aggiungono a quelle raccolte dal giornale israeliano Haaretz, soldati israeliani di stanza a Gaza che denunciano la pratica comune di esecuzioni di massa.
E seguono a decenni di «mediazione disonesta» come sintetizzò lo studioso statunitense-palestinese Naseer H. Aruri in un saggio del 2003. Una strategia di mediazione che non è mai cambiata, tanto meno sotto la guida di Donald Trump che due giorni fa ha dato per certo il cessate il fuoco tra Hamas e Israele.
IERI LA DELEGAZIONE negoziale del movimento islamico palestinese ha proseguito nei colloqui al Cairo, insieme al team giunto dal Qatar. Funzionari anonimi di Hamas hanno detto all’agenzia stampa turca Anadolu che il gruppo sarebbe intenzionato a dare una risposta in merito ai due mesi di tregua entro un paio di giorni e la risposta potrebbe essere positiva.
Intanto, lontano da Doha, Tel Aviv e Washington, a bordo in un tuktuk diretto in uno dei pochi ospedali semi funzionanti di Gaza, il giovane poeta palestinese Adel Al-Ramadi siede impolverato, lungo i fianchi ha una cintura stretta al massimo perché i jeans sono diventati troppo larghi per un corpo che non conosce cibo.
Tra le lacrime, recita la sua poesia: «Vogliono che io venga spogliato della carne, del grasso, delle ossa su cui sto in piedi…Vogliono che io non abbia una mano per allungarmi su una pietra e poterla raccogliere. La mia voce si sovrappone a un’altra voce, la mia ombra si sovrappone a un’altra ombra… come può la giustizia distogliere lo sguardo? Siamo stanchi, o dio, siamo stanchi».
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