Donne al vertice della aziende? Ancora troppo poche, soprattutto nelle piccole e medie imprese del Nord Est. Il motore che ha spinto l’economia di queste terre fatica a trovare e dare spazio all’universo femminile. Perché?
Uno studio condotto dalla Fondazione Nord Est evidenzia come sia aumentata la presenza delle donne nei consigli di amministrazione. Del resto una legge del 2011 (la 120, conosciuta come legge Golfo-Mosca) ne fa un obbligo per le società quotate in borsa introducendo le quote di genere. Ma non basta una legge a cambiare un pensiero culturale. E infatti le donne che ricoprono poi il ruolo di amministratore delegato o presidente del consiglio di amministrazione sono ancora una rarità. Proponiamo di seguito l’indagine e le conclusioni delle due ricercatrici di Fondazione Nord Est che hanno curato lo studio.
Parlare di governance aziendale e gestione delle risorse umane significa andare oltre i numeri del fatturato e dei bilanci: significa capire come le imprese prendono decisioni strategiche, assegnano responsabilità e costruiscono modelli di crescita sostenibili. È proprio nella governance che si riflettono, o si perdono, le sfide legate all’inclusione, alla parità di genere e alla valorizzazione delle persone.
Dalla presenza di donne nei consigli di amministrazione alla creazione di comitati interni dedicati, fino alla scelta di destinare o meno budget per programmi specifici, l’indagine condotta da Fondazione Nord Est su 333 imprese manifatturiere nordestine con oltre 10 milioni di euro di ricavi mostra un quadro in cui sono soprattutto le grandi aziende a muoversi.
Le piccole faticano ancora a trasformare questi principi in pratiche concrete. Un segnale importante che evidenzia come la qualità della governance possa incidere profondamente anche sulla gestione delle risorse umane e sul benessere di chi lavora.
Donne e consigli di amministrazione
Un primo aspetto è quello relativo alla composizione dei cda.
Con l’introduzione delle quote di genere nei cda delle società quotate italiane, la presenza femminile è aumentata sensibilmente: la quota di donne appartenenti ad incarichi di amministrazione delle maggiori società quotate è passata dal 5,9% nel 2011 al 43% nel 2023. Tuttavia, i ruoli apicali restano saldamente maschili: nel 2023, tra le donne presenti nei cda delle società quotate su Euronext Milan (EXM), solo il 2,3% ricopriva il ruolo di amministratore delegato e il 3,6% quello di presidente del consiglio di amministrazione.
Nel Nord-est la situazione non appare più incoraggiante: in riferimento alle 333 imprese intervistate, nel 47,7% dei casi non è presente alcuna donna nel Cda. Le restanti imprese ovvero (174, ovvero il 52,3%) presentano situazioni molto eterogenee: si va da cda con una sola presenza femminile fino al 3,6% di imprese con consigli di amministrazione composti interamente da donne. Limitando l’analisi alle piccole e medie imprese, il quadro peggiora leggermente: in oltre la metà dei casi (51,3%) non è presente nemmeno una donna nel cda.
L’indagine rivela un dato chiaro: la presenza di almeno una donna nei consigli di amministrazione aumenta di 15 punti percentuali la probabilità di adottare pratiche a favore della parità di genere e dell’inclusione (es. rilevazione della percezione interna dei dipendenti sulle pari opportunità, realizzazione di iniziative per promuovere le pari opportunità al di fuori del contesto organizzativo).
Ma non solo: esiste anche una correlazione positiva tra la quota femminile nei Cda e l’adozione di misure di welfare aziendale. Nello specifico, le imprese in cui siede almeno una donna nel cda adottano con una probabilità maggiore di 10,6 punti percentuali, misure di welfare aziendale quali flessibilità oraria, smart working, convenzioni con asili nidi.
Donne nella produzione
Oltre alla composizione del consiglio di amministrazione, anche altre caratteristiche aziendali sembrano influenzare l’adozione di pratiche inclusive e misure di welfare. In particolare, una maggiore quota di donne tra i dipendenti è associata a una più alta probabilità di implementare sia politiche attive per la parità e l’inclusione, sia interventi di welfare aziendale. Sebbene l’effetto sia meno marcato rispetto a quello legato alla presenza femminile nei cda, il dato evidenzia comunque un’associazione positiva.
L’analisi rileva inoltre due ulteriori fattori significativi in relazione alle sole pratiche di parità e inclusione:
- La dimensione aziendale: le imprese con più di 50 addetti presentano una probabilità maggiore di 22,9 punti percentuali di adottare queste pratiche;
- Il settore di attività: le imprese nel comparto metalmeccanico mostrano una propensione significativamente inferiore (-10,2 punti percentuali).
Verso la parità di genere in azienda
Le aziende intervistate percepiscono che il mercato richiederà sempre più policy che favoriscono la parità di genere e che l’adozione di misure aziendali orientate alla parità di genere potrà generare valore aggiunto e competitività.
Ma poi nella realtà cosa accade?
I dati raccolti confermano che solo l’8% delle aziende dichiara di avere un budget dedicato allo sviluppo di attività a supporto dell’inclusione, della parità di genere e dell’integrazione. Eppure, destinare risorse specifiche a questi temi non è soltanto un gesto simbolico: è la prova concreta che un’azienda vuole passare dalle parole ai fatti. Senza un budget, ogni dichiarazione di principio rischia di restare una promessa vuota.
Disporre di fondi dedicati significa, ad esempio, poter pianificare e realizzare interventi strutturati: dai corsi di formazione contro stereotipi e pregiudizi, ai programmi di mentorship per favorire la leadership femminile, fino ai progetti di inserimento mirato. Ma vuol dire anche poter monitorare in modo puntuale il gender pay gap o sviluppare politiche di conciliazione vita-lavoro, indispensabili per ridurre le disuguaglianze.
Il quadro si completa con altri dati poco incoraggianti: nel 79,4% delle aziende intervistate non esiste un comitato, un’unità o un ruolo organizzativo che si occupa di gestire e monitorare le tematiche legate a inclusione, parità e integrazione. E alla domanda se siano previsti obiettivi legati alla parità di genere nella valutazione dei vertici e del management, quasi l’80% delle imprese risponde di no.
Governance e gestione delle risorse umane sono due facce della stessa medaglia: la prima stabilisce priorità, regole e risorse; la seconda le traduce in politiche concrete per le persone. Solo quando i vertici scelgono di investire davvero su inclusione, parità e benessere, l’HR (human resources, tradotto risorse umane) può diventare un motore di cambiamento reale
Maternità e turnover
Quindi, come si comportano, in concreto, le aziende sul fronte della gestione delle risorse umane?
Si osserva un’attenzione piuttosto diffusa verso la tutela del posto di lavoro e del livello retributivo dopo la maternità, garantita dal 66,3% delle aziende con più di 50 dipendenti e dal 51,7% di quelle più piccole. Anche la partecipazione equa ai percorsi di formazione e valorizzazione vede percentuali incoraggianti, con la presenza di entrambi i generi in oltre metà delle realtà più strutturate (58,4%), e in misura minore nelle piccole (41,5%).
Tuttavia, solo un terzo delle aziende (33,5%) monitora il turnover dei dipendenti analizzando la mobilità del personale in base al genere.
Anche in questo caso, la dimensione aziendale fa la differenza: il 48,9% delle aziende strutturate presidia il turn over contro l’appena 23,2% delle aziende più piccole.
Discriminazioni, molestie o violenze sul lavoro
Ancora meno diffuse sono le indagini sul vissuto personale dei lavoratori rispetto a discriminazioni, molestie o violenze subite sul lavoro, presenti solo nel 9,7% delle aziende sotto i 50 dipendenti e nel 22,9% di quelle più grandi.
Un po’ più frequente, ma comunque tutt’altro che capillare, è il monitoraggio dei differenziali retributivi di genere: questa pratica è adottata nel 16,3% delle piccole imprese e nel 38,8% di quelle con oltre 50 addetti, segno che la gestione HR tende ancora a considerare la parità salariale come un tema non urgente.
Donne e cambiamento
La qualità della governance aziendale emerge come un fattore determinante per l’effettiva implementazione di politiche di parità e inclusione. L’indagine dimostra che la presenza femminile nei vertici aziendali non è solo un fatto di rappresentanza, ma un vero e proprio catalizzatore di cambiamento: dove ci sono donne nei consigli di amministrazione, si registra un maggiore impegno su questi temi.
Tuttavia, questo slancio si concentra soprattutto nelle aziende più grandi, mentre le imprese di dimensioni minori faticano ancora a tradurre i principi in azioni concrete.
La scarsità di budget dedicati e la quasi totale assenza di strutture organizzative specifiche (come comitati o ruoli dedicati) suggeriscono che, senza investimenti mirati e obiettivi formalizzati, le dichiarazioni di principio rimangono inefficaci.
Inoltre, i dati sulla gestione delle risorse umane rivelano lacune significative. La limitata diffusione di pratiche di monitoraggio di aspetti cruciali come il turnover dei dipendenti, le discriminazioni e il gender pay gap indica che la parità non è ancora considerata una priorità consolidata nelle politiche HR.
Le conclusioni
In conclusione, per innescare un reale cambiamento culturale e organizzativo, è fondamentale rafforzare la governance aziendale. Ciò significa non solo aumentare la diversità ai vertici, ma soprattutto destinare risorse concrete e introdurre strumenti di controllo che trasformino l’intenzione in azione.
*Elisabetta Lamon, ricercatrice in Fondazione Nord Est. Ha esperienza nella formazione nell’area HR. Si occupa di ricerca sociale, analisi qualitativa e studi di caso. Le interessano in particolare il mercato del lavoro e il capitale umano, la sostenibilità e il welfare, i temi legati alla parità di genere e, con uno sguardo curioso al futuro, la space economy. Crede nel potere dei dati e delle storie per comprendere i cambiamenti e contribuire a costruire organizzazioni e società più inclusive e innovative.
Alice Giacomelli, ricercatrice in Fondazione Nord Est, dove si occupa principalmente di analisi quantitative e dell’elaborazione dei dati su diverse tematiche economiche e sociali. Laureata in Economics all’Università di Padova, le sue aree di interesse spaziano dalla macroeconomia alla finanza, dall’innovazione alla demografia e alla sostenibilità. In Fondazione collabora alla realizzazione di report e studi basati su dati e indicatori, con un approccio multidisciplinare. Tra i progetti più recenti a cui ha lavorato c’è un approfondimento dedicato alla presenza femminile nei consigli di amministrazione delle imprese.
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