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Innovazione e distretti: le eccellenze nascoste del made in Italy


Quando si parla di made in Italy, l’immaginario collettivo corre di solito verso moda, cibo e design. Eppure, esiste anche un’Italia che innova, esporta e compete sui mercati globali in altri ambiti, anche se magari risulta meno visibile. È fatta di competenze tecniche, distretti industriali e servizi capaci di cogliere le opportunità dell’innovazione anche nei settori più tradizionali. Non conquista le copertine, ma tiene in piedi l’economia del Paese, anche nei momenti più difficili.

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Ad aprile, l’indice della produzione industriale nella Penisola è aumentato dell’1% rispetto al mese precedente, segnando anche una moderata crescita su base trimestrale (più 0,4%). Secondo i dati Istat, sono cresciuti in particolare i beni di consumo (più 1,8%) e quelli strumentali (più 0,8%), mentre è rimasta stabile l’energia. È un segnale incoraggiante dopo mesi complessi, segnati da una lunga contrazione produttiva. Se guardiamo al dato tendenziale corretto per gli effetti di calendario, il più 0,3% rispetto ad aprile 2024 suggerisce una fragile, ma significativa inversione di tendenza, che ora dovrà passare al vaglio delle rilevazioni estive quando saranno più evidenti le conseguenze della nuova politica commerciale adottata dagli Stati Uniti.

Tornando ai dati dell’Istat relativi ad aprile, alcuni settori hanno fatto meglio di altri: più 4,7% per l’industria del legno, della carta e della stampa; più 4,3% per l’energia; più 3,3% per la fabbricazione di computer e prodotti elettronici. In calo, invece, comparti più esposti alle turbolenze globali: farmaceutica (meno 11%), mezzi di trasporto (meno 9,5%), prodotti petroliferi (meno 5%). Nel suo insieme, emerge l’immagine di un sistema economico fortemente ancorato alle dinamiche internazionali, nonostante i tanti cambiamenti intervenuti con lo scoppio della pandemia prima e le crescenti tensioni geopolitiche poi. Paghiamo il rallentamento della domanda cinese, la recessione in Germania, le guerre in Ucraina e Medio Oriente, nonché i conflitti commerciali, con i dazi voluti dall’amministrazione Trump che frenano investimenti e consumi anche nei casi in cui sono solo minacciati. Anche secondo le analisi della Banca d’Italia, il quadro globale resta fortemente instabile e i canali di trasmissione della crisi (esportazioni, energia, filiere globali) pesano soprattutto sulle imprese che operano in settori ad alta interdipendenza. Né è immaginabile un’inversione di rotta con una chiusura sul mercato interno, dato che — complici fattori secolari come l’invecchiamento della popolazione — l’Italia non ha un grande potenziale di crescita interna.

Eppure, come sottolineato dall’economista Marco Fortis (Fondazione Edison), in presenza di un concorso di fattori destabilizzanti come mai si era visto prima, restiamo un Paese competitivo “in settori di cui spesso si parla troppo poco”. Ingegneria meccanica, meccatronica, robotica di precisione, automazione industriale e beni strumentali sono solo alcuni dei comparti produttivi in cui possiamo vantare realtà di eccellenza. Ma anche servizi come il facility management, che include la gestione integrata di edifici e infrastrutture, una componente strategica per la sanità, la logistica, il turismo, la mobilità urbana.

Queste analisi non esauriscono il quadro dell’economia italiana, che continua a fare i conti anche con problemi strutturali. La frammentazione produttiva, la difficoltà ad accedere al credito e il nanismo imprenditoriale pesano sulla capacità di competere. A incidere è anche la produttività da fattori esterni al controllo diretto delle imprese: dalla qualità della burocrazia alle infrastrutture digitali, dall’efficienza della giustizia civile alla formazione dei lavoratori. Quanto all’innovazione, i dati vanno letti con attenzione. Secondo l’Istat, le imprese manifatturiere italiane che investono in tecnologie digitali e green mostrano livelli di produttività superiori del 30% rispetto alla media. Il problema è che queste imprese sono ancora una minoranza.

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Una delle storiche debolezze italiane è l’incapacità di fare sistema. In un mondo in cui contano le reti, le filiere, le alleanze pubblico-private, l’Italia si presenta ancora troppo spesso in ordine sparso. Mancano politiche industriali coordinate, manca una strategia nazionale per l’innovazione diffusa, e soprattutto manca una regia a livello europeo, dove invece servirebbe un fronte comune per affrontare le sfide globali: digitalizzazione, transizione ecologica, politica industriale e commerciale. La Commissione Ue lo ha ribadito più volte: serve un’Europa che protegga e promuova la propria industria, con strumenti simili all’Inflation Reduction Act americano o ai piani cinesi. L’Italia, in questo contesto, dovrebbe essere protagonista e non spettatrice. Per cambiare passo, ha sottolineato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, occorre mettere le imprese al centro con infrastrutture più moderne, giustizia civile più veloce, università meglio collegate al mondo produttivo e politiche fiscali più prevedibili. Per von der Leyen, il family business non va percepito come un freno, ma piuttosto come il cuore pulsante dell’economia europea, il che comporta la necessità di considerare chi rischia in proprio come la forza propulsiva della crescita, che significa non solo Pil, ma anche occupazione e sviluppo dei territori.



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